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Mafia e bufale. Complottismo

La narrazione sulla “lotta alla mafia” è costruita in ampia misura dall’idea che lo Stato abbia fatto ricorso a mezzi inconfessabili
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Mafia e bufale. Complottismo

La narrazione sulla “lotta alla mafia” è costruita in ampia misura dall’idea che lo Stato abbia fatto ricorso a mezzi inconfessabili
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La narrazione sulla “lotta alla mafia” è costruita in ampia misura dall’idea che lo Stato abbia fatto ricorso a mezzi inconfessabili
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La narrazione sulla “lotta alla mafia” è costruita in ampia misura dall’idea che lo Stato abbia fatto ricorso a mezzi inconfessabili
Sono trent’anni che buona parte della narrazione sulla “lotta alla mafia” è costruita in ampia misura dall’idea che lo Stato abbia fatto ricorso a mezzi inconfessabili per indurre a più miti consigli le cosche stragiste corleonesi. Ragionamento che ha portato dritto a dar per scontato l’accordo fra politica, apparati di sicurezza e mafiosi. È la mistica della “trattativa”, sbugiardata nelle aule di tribunale in ogni procedimento avviato e regolarmente conclusosi con l’assoluzione degli uomini dello Stato imputati con le più svariate accuse. Tutte, in ogni caso, riconducibili all’idea del patto scellerato per chiudere la stagione delle stragi e gestire il dopo. Dal punto di vista giornalistico, questa lettura è predominante da decenni e agli occhi dell’opinione pubblica è finita per saldarsi con la rappresentazione in fiction del fenomeno mafioso e della criminalità organizzata in Italia. Dai tempi lontanissimi della “Piovra“ sino a “Gomorra” e a “Suburra”, la fantasia ha finito per nutrirsi della visione complottista della realtà. Finendo per indirizzarla pesantemente. Non vogliamo essere fraintesi: è evidente che il problema non siano gli sceneggiatori delle fiction ma i professionisti di una certa lettura della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta tendente a sostenere il marciume dello Stato e di quello che invariabilmente viene definito “sistema”. L’ossessiva ripetizione per decenni dello schema della “trattativa” ha finito per sollevare dall’obbligo di fornire prove circostanziate e in grado di reggere in un tribunale. Figuriamoci se potevamo risparmiarci questa retorica già cinque minuti dopo la notizia della cattura di Matteo Messina Denaro. Del resto, trent’anni dopo il blitz che portò all’arresto di Totò Riina, in molti continuano a sostenere la teoria dei punti oscuri, del covo non perquisito, delle mani e manine che avrebbero aiutato in cambio di chissà cosa. Frutto di una sfiducia – atavica – nello Stato, alimentata proprio da questa narrazione. Non sorprende, ma fa male a chi ama il Paese e rispetta profondamente il lavoro e la dedizione delle forze dell’ordine, nel giorno di una vittoria così a lungo attesa. Nessuno nega siano esistiti corrotti, “zone grigie”, collusioni, contatti e coperture, anzi li diamo per scontati nel cercare di comprendere tre decenni di latitanza altrimenti inspiegabili. Pensiamo che tutto questo sia finito perché la mafia – come ogni fenomeno umano – è in continua evoluzione. Matteo Messina Denaro era il più alto rappresentante, l’ultimo padrino in libertà delle cosche stragiste, dell’ala corleonese che decise di dichiarare guerra allo Stato con gli assassinii eccellenti e le bombe. Una mafia che non tratta anche perché morta e sepolta, in quella versione. Sostituita da un’organizzazione scaltra e pericolosissima, dalle tattiche e dagli interessi profondamente cambiati. Di sicuro molto meno interessata a difendere un boss ormai ingombrante e fuori dal tempo. È affascinante ma poco attinente alla realtà straparlare di “trattative”, favori molto presunti ai delinquenti per arrivare al boss, “papielli”, “pizzini” o dell’immancabile intervista al mafioso più o meno pentito che sapeva tutto e aveva previsto tutto. Roba da romanzo, mentre un successo del genere è frutto di anni di lavoro certosino, oscuro, faticosissimo e pericoloso. Molto poco 007 e tantissima analisi di segnali e indizi anche impercettibili. L’invito è a lasciar perdere le facili tentazioni sui misteri da film e concentrarsi sul tanto che ancora c’è da capire e scoprire della rete di connivenze e del nuovo potere mafioso, evitando – come abbiamo ascoltato stralunati a botta calda – il solito e impresentabile rinfacciarsi fra destra e sinistra di meriti e responsabilità. Uno spettacolo irrispettoso del lavoro delle donne e degli uomini che hanno assicurato Matteo Messina Denaro alla giustizia dello Stato. Di Fulvio Giuliani

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