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Follemente corretto. Trigger warning

La storia mostra che il follemente corretto non conosce limiti: prima bastavano i trigger warning, ora si pretende la censura, domani chissà
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Follemente corretto. Trigger warning

La storia mostra che il follemente corretto non conosce limiti: prima bastavano i trigger warning, ora si pretende la censura, domani chissà
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Follemente corretto. Trigger warning

La storia mostra che il follemente corretto non conosce limiti: prima bastavano i trigger warning, ora si pretende la censura, domani chissà
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La storia mostra che il follemente corretto non conosce limiti: prima bastavano i trigger warning, ora si pretende la censura, domani chissà
Storicamente, una delle prime manifestazioni del follemente corretto fu l’imposizione, nelle università americane, dei cosiddetti trigger warning, espressione difficilmente traducibile in italiano. Letteralmente significa “avvisi di attivazione” o “avvertimenti di innesco”. In concreto, nel contesto universitario in cui veniva e viene di solito usata, significa: attento, quel che sto per farti sentire o vedere potrebbe scatenare in te una reazione di timore, imbarazzo, turbamento, sofferenza et cetera (e quindi io, professore sensibile e illuminato, ti metto in guardia, così se non te la senti puoi uscire dall’aula). Ma che cos’era così potenzialmente scatenante da richiedere un avvertimento? Film violenti con sangue, torture, crudeltà verso bimbi innocenti? Materiale pornografico con scene sadomaso e umiliazioni delle vittime? Racconti di rara crudezza od oscenità? No, nulla di tutto questo. Nel mirino dei trigger warning – nell’università e fuori – sono finite opere come la “Divina Commedia”, i miti greci, i dipinti di Gauguin, “Via col vento”, i film western, “Dumbo” et cetera. Il tutto perché nei loro contenuti o nella vita dei loro autori qualcuno poteva trovare tracce di sessismo (Zeus e le dee), razzismo (Rossella O’Hara nel Sud schiavista), suprematismo bianco (cowboy contro indiani) o islamofobia (Maometto nell’Inferno). Di qui la pratica, ampiamente diffusa negli Stati Uniti, di avvertire studenti, ascoltatori e spettatori dei pericoli che potrebbero correre esponendosi a certe opere, cosa che facciamo anche noi in Europa ma solo con i bambini (ad esempio mediante l’istituto delle fasce orarie protette in tv). Si potrebbe supporre che, con queste precauzioni, un professore americano sia al riparo da ogni critica. Invece no. Alla fine del 2022 nell’Università Hamline a Saint Paul (Minnesota) la professoressa Erika López Prater, docente (precaria) di storia dell’arte, sapendo che – per una parte del mondo musulmano – esporre l’immagine del profeta è sacrilegio, si cautela avvertendo gli studenti che, fra le immagini che si accinge a mostrare, ve ne sarebbe stata appunto una del profeta. Non solo, arrivata alla diapositiva critica, annuncia che sta per mostrarla e che chi vuole può uscire. Nessuno obietta e la lezione ha termine. Fin qui siamo al follemente corretto classico: gli studenti, per quanto maggiorenni, sono trattati come fanciulli ipersensibili e impressionabili. Ma nei giorni successivi interviene un salto di qualità. Alcuni studenti musulmani si rivolgono all’amministrazione dell’università, accusando la professoressa López Prater di islamofobia. Qualcuno paragona l’esibizione del dipinto a un’apologia di Hitler. Il presidente dell’Università Hamline si schiera contro la professoressa, affermando che «il rispetto per gli studenti musulmani avrebbe dovuto prevalere sulla libertà accademica». E non le rinnova il contratto per il semestre successivo. La storia mostra che il follemente corretto non conosce limiti: prima bastavano i trigger warning, ora si pretende la censura, domani chissà. Ma è ancora più interessante per le reazioni che ha suscitato: alcune favorevoli, altre contrarie alla professoressa. Fra le reazioni pro Erika spicca quella di un’associazione musulmana, il Muslim Public Affairs Council (Mpac), che rilascia un lungo e intenso comunicato in cui afferma che: a. la questione dei dipinti di Maometto è controversa nel mondo musulmano; b. il dipinto in questione non è islamofobico; c. la professoressa ha agito con correttezza e dovrebbe essere ringraziata per il modo empatico e critico con il quale ha educato gli studenti. Le ultime parole del documento sono: «Sulla base dei nostri universali e condivisi valori islamici, noi affermiamo la necessità che nelle istituzioni universitarie vengano promossi spirito di libera indagine, pensiero critico, diversità dei punti di vista». Niente da imparare, Occidente? Di Luca Ricolfi

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