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Michael Jordan

Michael Jordan, un mito che si è fatto brand

Su Michael Jordan si sono sprecati gli aggettivi. Icona, superstar, “His Airness”. Un mito, una leggenda. Tutti hanno sognato, almeno una volta, di volare come MJ
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Michael Jordan, un mito che si è fatto brand

Su Michael Jordan si sono sprecati gli aggettivi. Icona, superstar, “His Airness”. Un mito, una leggenda. Tutti hanno sognato, almeno una volta, di volare come MJ
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Michael Jordan, un mito che si è fatto brand

Su Michael Jordan si sono sprecati gli aggettivi. Icona, superstar, “His Airness”. Un mito, una leggenda. Tutti hanno sognato, almeno una volta, di volare come MJ
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Su Michael Jordan si sono sprecati gli aggettivi. Icona, superstar, “His Airness”. Un mito, una leggenda. Tutti hanno sognato, almeno una volta, di volare come MJ

Nel 2009, durante il suo discorso per l’ingresso nella Hall of Fame, fulminò con lo sguardo i colleghi in attività che stavano sghignazzando alla sua minaccia di tornare sul parquet a cinquant’anni e dare così una lezione ai più giovani. Oggi che Michael Jordan di anni ne compie 60, i giocatori del Charlotte Hornets (di cui è proprietario) temono di trovarselo in pantaloncini all’allenamento dopo una sconfitta. Jordan è per gli americani il più grande sportivo di sempre. Più di Alì, Babe Ruth (il guru del baseball). Neppure considerati Maradona, Pelè, Messi e Federer. Lebron James, da poco miglior marcatore di sempre della Nba, è cresciuto nel suo mito, giocando dai tempi dell’high school con la maglia numero 23, quella dei sei titoli coi Chicago Bulls. Tutti hanno sognato, almeno una volta, di volare come MJ. Su Jordan si sono sprecati gli aggettivi. Icona, superstar, “His Airness”. Un mito, una leggenda.

La serie prodotta da Netflix “The Last Dance”, divenuta un oggetto di culto, ha contribuito a delineare i contorni di una personalità dalla forza esasperata, competitivo oltre il limite, spietato con gli avversari e con i compagni di squadra. Un vincente, il vincente. Tra gli aneddoti: prima del via di Orlando-Chicago del 1990 sparì (rubata) la casacca numero 23. MJ, superstizioso, giocò con la 12, senza nome sul retro: 49 punti. Due anni prima, contro Utah, schiacciò in testa a John Stockton (185 cm); un tifoso avversario gli urlò di provarci con uno più alto e nell’azione successiva la vittima di Jordan (198 cm) fu tale Mel Turpin (211 cm). MJ si girò e sorrise al tifoso.

La legacy di Jordan sullo sport mondiale è ancora talmente forte che il 5 aprile uscirà nei cinema il film “Air” (prodotto e recitato da Ben Affleck e Matt Damon) sulla storica partnership commerciale tra l’asso dei Bulls e la Nike. Girato da Spike Lee, il primo spot del 1984 – con Jordan che vola a canestro, lingua in fuori – ha sancito la nascita dell’atleta-logo legato indissolubilmente a un marchio, riconoscibile prima in America e poi nel mondo. Si deve a lui se oggi esistono campioni-azienda come Tiger Woods, Ronaldo, James e Messi. Fino a quel momento Nike vendeva solo scarpe per il running, distante nei fatturati da Adidas e Reebok. Nei due mesi successivi spiccò il volo come Jordan, vendendo 70 milioni di calzature, fino a diventare nei decenni la multinazionale dell’abbigliamento che ora veste la Nba e domina anche nel calcio europeo.

Jordan è un mito commerciale prima ancora che sportivo. L’accordo con Nike è a vita, il Brand Jordan (legato anche al Paris Saint Germain) nel 2022 ha fatturato cinque miliardi di dollari. Ma MJ va oltre i numeri. È un riferimento costante per le nuove generazioni. Kobe Bryant, altra leggenda, si è allenato per 25 anni, 10 ore al giorno, per “essere Jordan” ed esercitare lo stesso terrore sugli avversari. Ci è riuscito, in parte. Perché MJ resta unico.

di Nicola Sellitti 

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