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Triste tango argentino

L’ex presidente argentino Fernando de la Rua, all’inizio del 2021, non si rendeva conto del fatto che il Paese avrebbe attraversato la peggiore crisi finanziaria della storia, un default che lascia ancora oggi ferite aperte.
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Triste tango argentino

L’ex presidente argentino Fernando de la Rua, all’inizio del 2021, non si rendeva conto del fatto che il Paese avrebbe attraversato la peggiore crisi finanziaria della storia, un default che lascia ancora oggi ferite aperte.
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Triste tango argentino

L’ex presidente argentino Fernando de la Rua, all’inizio del 2021, non si rendeva conto del fatto che il Paese avrebbe attraversato la peggiore crisi finanziaria della storia, un default che lascia ancora oggi ferite aperte.
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L’ex presidente argentino Fernando de la Rua, all’inizio del 2021, non si rendeva conto del fatto che il Paese avrebbe attraversato la peggiore crisi finanziaria della storia, un default che lascia ancora oggi ferite aperte.
«Il 2001 sarà un grande anno per tutti. Che bello dare buone notizie». In pochi, in Argentina, dimenticano il pessimo pronostico dell’allora presidente Fernando De la Rua: meno di un anno dopo il Paese avrebbe attraversato la peggiore crisi finanziaria della sua storia, un default che lascia tuttora ferite aperte non solo nell’economia, ma anche nello spirito della nazione tutta. Da vent’anni la colonna sonora del dibattito pubblico e delle sofferenze private è un tristissimo tango, con il Fondo monetario internazionale nella parte del seduttore tutto calcoli e niente cuore che si approfitta della giovane Repubblica. La dittatura ‘civico-militare’ finita nel 1983 si era assunta i costi di una svalutazione selvaggia, creando un debito estero da record. Un fardello che i successivi governi hanno cercato di alleggerire con soluzioni via via più spericolate fino ad arrivare, nel dicembre del 2000, alla presunta ‘buona notizia’ di De la Rua: un prestito da 40 miliardi di dollari dal Fondo, per «spazzare qualsiasi minaccia o dubbio sul futuro dell’Argentina». Ma il Paese, che la recessione di fine secolo rendeva più povero e disoccupato, di dubbi ne aveva accumulati tanti: debito in continuo aumento, inflazione mai doma, continui sacrifici offerti ai creditori stranieri, un sistema produttivo imballato e dipendente dalle importazioni. Il fantasma di non riuscire a ripianare il debito spaventa la classe media e gli investitori esteri. Inizia una fuga di capitali che De la Rua cerca di placare limitando i prelievi dalle banche: non più di 250 dollari a settimana. La misura – decisa per di più sotto Natale – svela la crudezza della crisi e aumenta la paura. La protesta impazza, il governo dichiara lo stato di emergenza e il 20 dicembre 2001, dopo due giorni di violenza (con 39 morti e centinaia di feriti), De la Rua abbandona il palazzo presidenziale in elicottero mentre Buenos Aires brucia. Passano gli anni e le polemiche. Nel 2018 Mauricio Macri firma con l’Fmi l’accordo per un nuovo prestito record da 56 miliardi di dollari. Il presidente Alberto Fernandez vorrebbe chiudere la pendenza senza troppe ferite ma la trattativa – tecnicamente complicata – incontra la resistenza della piazza, dove fermenta l’astio per i grandi finanzieri. La lezione del passato ha seminato qualche accortezza che rende un po’ più difficile un altro default, ma rimane il pensiero che il Fondo si mangerà la crescita che il Paese produrrà nei prossimi anni, passata la pandemia. Senza cuore, appunto.   di Raffaele Bertini

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