Il mestiere dei genitori
Nell’era della pedagogia globalizzata, ai genitori viene detto sempre cosa dire e cosa non fare, facendoli sentire spesso, inutilmente, sbagliati
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Nell’era della pedagogia globalizzata, ai genitori viene detto sempre cosa dire e cosa non fare, facendoli sentire spesso, inutilmente, sbagliati
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Nell’era della pedagogia globalizzata, ai genitori viene detto sempre cosa dire e cosa non fare, facendoli sentire spesso, inutilmente, sbagliati
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Nell’era della pedagogia globalizzata, ai genitori viene detto sempre cosa dire e cosa non fare, facendoli sentire spesso, inutilmente, sbagliati
L’altra sera mio marito ha rimproverato aspramente nostro figlio di sette anni per un comportamento maleducato al ristorante. Premetto che ci trovavamo in un locale all’aperto, adatto ai bambini, in un orario consono e che gli era stato richiesto di restare seduto al tavolo per un tempo ragionevole. All’ennesima risposta non educata, il padre ha sollevato suo figlio con una certa veemenza e lo ha messo seduto sulla sedia, alzando il tono della voce per sottolineare il raggiungimento del limite massimo di sopportazione. Accanto a noi una coppia – occhialino da intellettuale per lui e kaftano per lei – ha reagito con sdegno, mimando il gesto di mio marito e scuotendo la testa. Mancava poco che chiamassero gli assistenti sociali. La verità è che, fino a qualche anno fa, io avrei potuto essere una di quei due (kaftano escluso). Finché mi sono dovuta occupare unicamente dell’educazione del mio primo figlio – indole docile, naturale propensione a seguire le regole – potevo muovermi con leggiadria nel magico mondo della genitorialità consapevole, raccogliendo complimenti per l’efficacia dei miei metodi così evoluti, così gentili. Poi è nato il mio secondo figlio e poco dopo mi sono resa conto che quello che aveva funzionato per uno non avrebbe funzionato per l’altro. Addio lunghe spiegazioni sottovoce sull’empatia e sul rispetto accompagnate da rinforzi positivi: al mio secondogenito facevano l’effetto di una filastrocca senza senso, utile soltanto per prendere tempo ed escogitare un modo raffinato per farmi fessa alla prima occasione. Per lui funzionavano solo le vecchie, datate punizioni, occasionalmente accompagnate da grida inferocite. Il mio secondogenito mi ha obbligata a un bagno di umiltà e all’amara consapevolezza che non era stato il mio impegno di educatrice ad aver reso suo fratello un ragazzino gentile ed educato ma l’incastro fortuito fra la sua indole e la mia. Così mi sono dovuta inventare un nuovo modo, procedendo per prove ed errori, con la consapevolezza che i bambini hanno bisogno di limiti e di qualcuno che glieli faccia rispettare, costi quel che costi. Ho rivalutato lo stile normativo di mio marito – che tanto avevo criticato quando si trattava del nostro primogenito – e ho capito che non si può pensare di trattare i figli allo stesso modo se quei figli sono profondamente diversi. Nell’era della pedagogia globalizzata a noi genitori viene detto cosa non fare e cosa non dire ma mai ci viene offerta un’alternativa che non sia valida soltanto sulla carta, tanto che molti genitori si paralizzano, preferendo una sconfitta educativa alla sanzione sociale di un atteggiamento genitoriale considerato fuori luogo. Ci si vergogna di fare quello che si può con quello che si ha, di essere genitori che magari sbagliano ma che lo fanno provandoci. Perché solo chi non fa non sbaglia e sbagliare, a volte, è il male minore. di Maruska Albertazzi
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