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Il potere dello sport

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La fascinazione del potere per i grandi successi sportivi e la convinzione che balzare sul carro dei vincitori porti consenso è storia antica
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La fascinazione del potere per i grandi successi sportivi e la convinzione che balzare sul carro dei vincitori porti consenso è storia antica
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La fascinazione del potere per i grandi successi sportivi e la convinzione che balzare sul carro dei vincitori porti consenso è storia antica
Tutti pensano che all’origine di tutto ci fu Sandro Pertini esultante al Santiago Bernabeu nella notte dell’11 luglio 1982: Italia campione del mondo. In realtà, la fascinazione del potere per i grandi successi sportivi, la convinzione che balzare sul carro del vincitore porti consenso è storia antica. In Italia converrebbe riguardare la fotografia che ritrae la Nazionale campione del mondo del 1934, all’indomani dei Mondiali di calcio disputati nel nostro Paese e della finale vinta contro la Cecoslovacchia per 2-1 allo Stadio del Partito nazionale fascista di Roma. Quel pomeriggio sugli spalti c’era anche Mussolini e i giornali raccontarono la finale come se l’avesse giocata e vinta lui. La squadra guidata dal commissario unico Vittorio Pozzo venne poi ricevuta dallo stesso Mussolini a Palazzo Venezia: nell’istantanea il mascellone è di ordinanza come l’espressione truce, mentre i giocatori improbabilmente abbigliati in divisa della milizia cercano di darsi un contegno ma in buona parte non vi riescono. La stessa distanza fra l’espressione del capo e della truppa dice molto del conformismo e della finzione di quegli anni di grande consenso. Proprio queste memorie, il diluvio di retorica nazionalista che avvolse i trionfi calcistici e ciclistici del Ventennio tenne lontani i nuovi potenti dell’Italia repubblicana dal mondo dello sport. Almeno per un po’. Oggi diamo per scontato che il trionfo di Gino Bartali al Tour de France abbia evitato guai peggiori dopo l’attentato al leader del Pci Palmiro Togliatti ma all’epoca nessuno si sognò di invitarlo al Quirinale o a Palazzo Chigi. Nulla o quasi sarebbe cambiato fino a quell’11 luglio 1982, quando Sandro Pertini – animale politico di rara sensibilità e dotato di un fiuto quasi animalesco – volò a Madrid per la finale del Mundial contro la Germania Ovest. Anche il presidente del Consiglio di allora, Giovanni Spadolini, avrebbe voluto partecipare. S’interessava zero di cose di calcio e di sport ma certo non gli sfuggiva il peso dell’evento, solo che Pertini non volle dividere il palcoscenico con nessuno. Il resto è storia, con l’esultanza nel palco d’onore del Bernabeu, re Juan Carlos di Spagna a preoccuparsi che non finisca di sotto, il povero cancelliere tedesco Schmidt diafano e abbandonato. Il Dc-9 presidenziale che riportò in patria la Nazionale campione è oggi esposto al Museo dell’aria adiacente alla Malpensa, con tanto di tavolino che ospitò la mitica partita a scopone Pertini-Bearzot-Causio-Zoff. Nel Mondiale vinto dagli Azzurri 24 anni dopo c’era un altro Presidente, Giorgio Napolitano, ma praticamente non se ne ricorda nessuno. Non c’è un’immagine che lo ritragga sugli spalti dell’Olympiastadion di Berlino lontanamente paragonabile a quelle di Pertini. Nessuna partita a scopone sulla via del rientro ed è meglio così. Silvio Berlusconi meriterebbe un’enciclopedia in materia: la sua stessa politica è indissolubilmente legata all’immaginario sportivo, il partito da lui fondato era l’incitamento standard per gli azzurri. Diciamo che con lui la commistione sport-politica diventa simbiosi. In tempi recenti il presidente del Consiglio dell’epoca Matteo Renzi volò a New York per la finale tutta italiana degli Open Usa di tennis fra Flavia Pennetta e Roberta Vinci. La liturgia del vincitore s’interruppe solo nella domenica in cui l’Italia approdò alla finale di Wimbledon con Matteo Berrettini e vinse il campionato europeo di calcio. Il giorno dopo a Palazzo Chigi venne ricevuta la Nazionale ma con gli azzurri c’era anche lo sconfitto Berrettini. Più che un soddisfatto e misurato – come da personaggio – presidente del Consiglio Mario Draghi, si ricorda l’incredibile baracconata della parata concessa ai campioni d’Europa in una Roma sino a poche ore prima in semi lockdown per il Covid. Giorgia Meloni non ha insomma inventato nulla e il faccia a faccia di Palazzo Chigi con il fresco vincitore degli Australian Open Jannik Sinner è svicolato sereno. La vera polemica la facciamo italianamente sul Festival di Sanremo. Forse ai politici converrebbe prendere atto che può maggiormente influenzare una carriera Amadeus che non il presidente del Consiglio. Così è se vi pare. Di Fulvio Giuliani

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