Il femminile sovra… esposto
La trovata propagandistica dell’Università di Trento che ha sancito l’uso del femminile sovraesteso in tutte le comunicazioni interne all’ateneo
Il femminile sovra… esposto
La trovata propagandistica dell’Università di Trento che ha sancito l’uso del femminile sovraesteso in tutte le comunicazioni interne all’ateneo
Il femminile sovra… esposto
La trovata propagandistica dell’Università di Trento che ha sancito l’uso del femminile sovraesteso in tutte le comunicazioni interne all’ateneo
La trovata propagandistica dell’Università di Trento che ha sancito l’uso del femminile sovraesteso in tutte le comunicazioni interne all’ateneo
La ‘cultura’ woke vive anche di provocazioni, in qualche misura ne ha bisogno per applicare la teoria dei ‘salti quantici’. In quest’ottica s’inserisce la trovata propagandistica dell’Università di Trento che ha sancito l’uso del femminile sovraesteso in tutte le comunicazioni interne all’ateneo. “Rettrice”, “direttrice”, “professoresse” e “studentesse” invece che “rettore”, “direttore”, “professori” e “studenti”.
Volutamente in barba a qualsiasi regola grammaticale, con il dichiarato intento di scuotere le coscienze e indurre una riflessione sul perdurante gender gap.
Un approccio annoso che in Scozia ha portato al varo di una legge che addirittura vieta il riferimento a un genere specifico, a meno che non sia esplicitato dal diretto interessato(a). La creatrice di Harry Potter, J. K. Rowling, si è detta inorridita ma a Edimburgo tirano dritto.
In Italia non ha prodotto alcun risultato concreto (per fortuna, a questo punto), se non dar fiato a polemiche stucchevoli e regalare un po’ di facile notorietà a chi ha abbracciato una lotta in cui si confondono forma e sostanza. Dietro l’avvocata e l’ingegnera, un po’ meno all’architetta a cui eravamo abituati, non c’è nulla o quasi.
Spieghiamo: se qualcuno crede che queste battaglie aiutino a cambiare la condizione femminile nel lavoro e più in generale nella società è libero di farlo ma dovrebbe almeno dare un’occhiata alle cifre: siamo il Paese dell’Unione europea in cui le donne lavorano meno (con picchi da aree sottosviluppate al Sud e una condizione relativamente ‘normale’ al Nord), una vergogna che soltanto una fantasia interessata può pensare di ridurre violentando la grammatica.
Nelle università – speriamo che a Trento se ne occupino – registriamo percentuali insopportabilmente basse di ragazze iscritte nelle facoltà Stem. Non si iscrivono a Ingegneria o a Matematica perché la loro futura professione non verrà declinata al femminile ma perché in Italia – a cominciare dalla famiglia – determinati stereotipi sono duri a morire e l’illusione di intaccarli grammaticalmente fa tenerezza.
Avremmo delle praterie davanti a noi, anzi davanti alle nostre ragazze: sono quelle professioni di cui il mercato è affamato e che oggi vengono coperte da uomini in percentuali che non di rado scavalcano l’80%. Ci affidiamo a legioni di infermiere e dottoresse – altri casi in cui il femminile è regolarmente usato da sempre – in lavori di indicibile delicatezza e fatica, non riusciamo a capire perché non potremmo sfornare data analist o scientist donna. Giusto per fare un esempio fra le figure più fortunate nel mercato delle professioni.
Sono i temi di cui parlare e lasciamo il femminile sovraesteso ai talk, avendo l’onestà intellettuale di ricordare che una marea di professioniste non ha mai sopportato questa battaglia e pretende di essere chiamata al maschile. Perché ha lottato e faticato per realizzarsi in una professione e seguire la propria passione, non la furia iconoclasta di qualcuno
di Fulvio Giuliani
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