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Tregua: Stop and Go, ma si tratta

Nelle ultime 24 ore si sono moltiplicati i segnali incoraggianti dall’Egitto per una tregua nel disastro della Striscia di Gaza

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Tregua: Stop and Go, ma si tratta

Nelle ultime 24 ore si sono moltiplicati i segnali incoraggianti dall’Egitto per una tregua nel disastro della Striscia di Gaza

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Tregua: Stop and Go, ma si tratta

Nelle ultime 24 ore si sono moltiplicati i segnali incoraggianti dall’Egitto per una tregua nel disastro della Striscia di Gaza

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Nelle ultime 24 ore si sono moltiplicati i segnali incoraggianti dall’Egitto per una tregua nel disastro della Striscia di Gaza

Prudenza e piedi di piombo sono il minimo in una situazione del genere, ma nelle ultime 24 ore si sono oggettivamente moltiplicati i segnali incoraggianti dall’Egitto, dove le parti – sotto la continua spinta degli americani – cercano faticosamente una tregua nel disastro della Striscia di Gaza.

Stop and Go sono prevedibili nei prossimi giorni e infatti sono puntualmente arrivati nella serata di ieri, eppure il semplice fatto che si parli da parte dei terroristi di Hamas di trattative legate al rilascio degli ostaggi non subordinato alla dichiarazione della fine delle operazioni militari nella Striscia ma solo a una tregua (più o meno lunga) è un passo in avanti notevole.

Come si accennava, in serata hanno sostituito a fine della guerra “ritiro definitivo” e la giostra riparte. La semplice verità è che ognuno porterebbe a casa qualcosa, cedendo non poco: si deve infatti riconoscere che Hamas viene pubblicamente trattata come protagonista di una trattativa politico-diplomatica, qualcosa di pericolosamente vicino a una forma di riconoscimento. Ciò che per Israele – più che comprensibilmente – è impensabile e che la realtà dei fatti, la pressione della tragedia umanitaria nella Striscia e il peso dell’opinione pubblica israeliana per i propri concittadini ancora segregati in qualche buco sta rendendo necessario nei fatti.

Se si dovesse arrivare alla sospirata tregua “vincerebbero” però quasi tutti. Hamas per i motivi appena esposti, i civili palestinesi stremati oltre ogni limite, Israele che dovrebbe riuscire infine a recuperare gli ostaggi ancora in vita, gli Stati Uniti d’America per l’indiscutibile capacità di esercitare una pressione diplomatica in quasi totale solitudine. Ancora: le ali meno estreme del governo di Tel Aviv, la stessa cianotica Autorità nazionale palestinese, che sarebbe riuscita a tenersi in qualche modo alla larga dal deflagrare totale del conflitto, Egitto e Qatar per il ruolo di mediazione. Quest’ultimo, poi, è forse pronto a espellere i leader politici di Hamas.

Come avrete notato, è fuori dalla lista il leader israeliano Benjamin Netanyahu che ha sempre dato l’impressione di voler attaccare anche a Rafah, per portare avanti la sua irrealistica strategia dell’eliminazione di ogni singolo terrorista di Hamas, prima di dichiarare conclusa la guerra nella Striscia. Strategia campata in aria quanto si vuole, ma pur sempre comprensibile se si ricorda un dato fondamentale: la sopravvivenza politica di Bibi è legata alla guerra. Quando sarà finita, sarà impossibile rimandare sine die i conti sul fallimento epocale del 7 ottobre.


Per ora hanno pagato i vertici dei servizi di sicurezza, gettando la spugna. Appare improbabile che non arrivi, prima o poi, il momento anche per il più longevo e divisivo leader della storia di Israele.

di Fulvio Giuliani

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