Il +6,5% del Pil italiano nel 2021 deve essere solo l’inizio: non c’è alternativa alla crescita economica per dare solidità al nostro presente e non condannare i nostri figli.
Ci eravamo così disabituati a guidare una classifica europea – una qualsiasi, tranne il calcio e non sempre – da aver fatto fatica per qualche mese persino ad adattarci all’idea di essere “quelli del Pil cresciuto di più”. Secondi in assoluto, a un’incollatura dalla Francia, nell’anno di ‘rimbalzo’ dal disastro pandemia del 2020. Un +6,5% che è già storia, superiore a ogni rosea previsione e soprattutto alle grigie abitudini del nostro Paese da vent’anni a questa parte. La sorpresa, che ha finito per oscurare anche il legittimo orgoglio di ciò che è stato fatto l’anno scorso, è determinata proprio da quanto ci siamo assuefatti all’idea che l’Italia avesse smarrito la capacità di crescere in modo continuo e robusto. Che fosse ormai dato per acquisito tutto ciò che ci ha tarpato le ali per due decenni.
Del resto, se nel 2021 abbiamo fatto i fuochi d’artificio, basta volgere lo sguardo appena un po’ più indietro per ritrovare l’Italia in fondo. Penultima, nella classifica dell’eurozona quanto al recupero dei livelli pre-pandemia. L’unico Paese, insieme alla Grecia, a non essere tornato ai livelli di Pil precedenti la grande crisi dei debiti sovrani, nel più lontano 2007. Se ci arrampichiamo sino al 1993, anno del trattato di Maastricht, restiamo lì, inchiodati a languire insieme al ventre molle del Mediterraneo centro-orientale.
I perché li conosciamo tutti: sono vent’anni che abbiamo smesso di competere, di apprezzare la sfida della sana concorrenza interna, scegliendo un progressivo aumento del protezionismo di fasce sempre più ampie di popolazione. Pur di non raccontar loro di un mondo del lavoro cambiato per sempre. Mentre ci impegnavamo con tutta l’energia a disposizione in sfibranti e inutili battaglie di retroguardia, la cosa più incredibile è che il pezzo d’Italia che continuava ad accettare la competizione globale vinceva regolarmente le sue battaglie. Trainando il corpaccione di un Paese ormai ripiegato su sé stesso. Abituato alla politica taumaturgica secondo la quale – una volta individuati dei colpevoli, indicati al pubblico disprezzo ed espulsi dall’agone pubblico – tutto si sarebbe magicamente risolto. Senza, s’intende, dover faticare, migliorare, conquistare giorno per giorno un pezzetto di futuro, con sudore e determinazione. Il paradiso dei mediocri, il nirvana di chi non sa far nulla, se non incolpare il prossimo delle proprie mancanze.
Leggetele, quelle date. Il 1993, in piena Tangentopoli, quando le inchieste giudiziarie dell’era di Mani Pulite cancellarono una classe politica. Il 2007, quando i mutui subprime e il crollo Lehman sparsero a piene mani i semi dell’odio sociale nei confronti di chi “ha i soldi”: che a far saltare il banco fossero stati milioni di americani pronti a credere alle scatole cinesi pur di permettersi ville, macchinone e vite da serie tv dovette sembrare un dettaglio. Il 2011, con l’esplodere della crisi dei debiti sovrani, l’Italia nel centro del mirino, la fine del berlusconismo, coinciso con l’esplodere del generico cupio dissolvi della lunga e sconclusionata stagione populista.
Ci eravamo avvitati su noi stessi e forse lo siamo ancora. Perché una rondine non fa primavera e un anno non basta, ce ne serviranno almeno dieci. Però un clamoroso esempio di cosa significhi crescere e crescere sul serio l’abbiamo davanti agli occhi, peccato non venga spiegato ad alta voce agli italiani: solo la scorsa settimana il governo ha potuto varare un provvedimento da circa 8 miliardi di euro per venire incontro alle esigenze del mondo della produzione e delle famiglie colpiti dal caro-energia. Lo ha fatto senza aumentare il fabbisogno del Paese, senza fare nuovo debito. È stato possibile grazie alla crescita poderosa del 2021. È così difficile da dire? Se cresceremo bene, potremo affrontare diversi capitoli di spesa, senza alimentare ulteriormente il debito, quel mostro che pesa su ciascuno e si mangia il nostro futuro. Se non cresceremo, se riprenderemo il tran tran dell’ossessiva ricerca di soluzioni miracolose e rigorosamente non faticose, resteremo confinati nelle ultime posizioni in classifica.
Un’offesa alla nostra storia, una condanna per i nostri figli.
Di Fulvio Giuliani
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