La star del basket LeBron James in squadra con suo figlio
Il potere e la leadership di papà LeBron prevalgono sulla dirigenza della squadra più prestigiosa dell’intera Nba
La star del basket LeBron James in squadra con suo figlio
Il potere e la leadership di papà LeBron prevalgono sulla dirigenza della squadra più prestigiosa dell’intera Nba
La star del basket LeBron James in squadra con suo figlio
Il potere e la leadership di papà LeBron prevalgono sulla dirigenza della squadra più prestigiosa dell’intera Nba
Il potere e la leadership di papà LeBron prevalgono sulla dirigenza della squadra più prestigiosa dell’intera Nba
Papà LeBron e Bronny James sullo stesso parquet in una partita Nba. Se ne parlava da almeno un paio d’anni, da quando la superstar dei Los Angeles Lakers aveva fattom presente che giocare con il figlio fosse uno degli ultimi desideri da esaudire di una carriera leggendaria. Detto, fatto: il 20enne Bronny ha appena iniziato la regular season con la franchigia californiana (primo impegno la notte scorsa contro i Minnesota Timberwolves) chiudendo un percorso che l’ha portato dal liceo alla prestigiosa Università di Southern California, giocando le partite sotto gli occhi dell’ingombrante papà, che con il suo potente manager Rich Paul gli ha sostanzialmente delineato il futuro sino all’ingresso nella Lega. Quello stesso ingresso che sembrava essere stato messo in pericolo da un arresto cardiaco (con successivo intervento al cuore), per fortuna senza conseguenze sulla salute del ragazzo. Poi c’è stato il rientro, il draft Nba – l’evento durante cui le squadre scelgono i migliori in arrivo dai college – e l’arrivo ai Lakers. A mettere sotto contratto Bronny avevano pensato anche i Golden State Warriors, che avrebbero potuto sceglierlo prima dei losangelini, eppure hanno preferito evitare lo sgarbo a LeBron, ancora ‘padrone’ della Nba a 40 anni da compiere fra poche settimane.
Il talento di Bronny è limitato, le statistiche sono quelle che sono e non sembra neppure uno di quegli atleti che incidono sulle gare senza balzare agli occhi per numeri. L’inevitabile paragone con il padre ovviamente non si può neanche ipotizzare. I Lakers, come qualunque altra franchigia della Lega, non avrebbero garantito un contratto lungo (quattro anni) a chiunque altro non portasse a spasso quel cognome, anzi lo avrebbero tagliato dopo qualche allenamento. Invece il potere e la leadership di papà LeBron hanno prevalso sulla dirigenza della squadra più prestigiosa (con i Boston Celtics) dell’intera Nba, la franchigia che è stata di Kareem Abdul-Jabbar, Magic Johnson e Kobe Bryant. In realtà, questo è un po’ un punto nero nella storia della Nba, che è sempre stata la lega del merito. Niente sconti a nessuno: diverse stelle del college e poi prime scelte al draft (per esempio Kwame Brown, Greg Oden, ma anche il nostro Andrea Bargnani) sono state fatte a pezzi dalla critica, una sorte toccata anche alle stelle. Michael Jordan, forse l’atleta – non solo il cestista – più iconico della storia dello sport mondiale, era considerato un perdente di successo sino al primo dei sei titoli ai Chicago Bulls. Lo stesso James, che gli contende lo scettro del più grande di sempre, nonostante la sua manifesta grandezza sul parquet era denominato “LeFlop” sino al primo titolo con i Miami Heat e ancora oggi conta milioni di hater. In generale, nella Nba anche i privilegiati sono chiamati a rendere sempre al massimo. È un universo testosteronico e verticale, si viene valutati in base all’entità dei (sontuosi) contratti. Inoltre c’è un ricambio vorticoso di atleti: ne arrivano ogni anno a decine dal college e spesso non trovano un ingaggio neanche campioni o veterani di livello, com’è accaduto al nostro Danilo Gallinari e un paio di anni fa a Carmelo Anthony, ex stella da oltre 29mila punti in carriera. Quello che ha invece trovato Bronny ai Lakers, passando dall’ingresso principale.
Di Nicola Sellitti
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