Scuola e industria, crisi della stessa Italia
I dati sulla qualità della scuola e sulla produzione industriale in Italia, riflettono carenze strutturali figlie anche del modo di intendere il Paese
Scuola e industria, crisi della stessa Italia
I dati sulla qualità della scuola e sulla produzione industriale in Italia, riflettono carenze strutturali figlie anche del modo di intendere il Paese
Scuola e industria, crisi della stessa Italia
I dati sulla qualità della scuola e sulla produzione industriale in Italia, riflettono carenze strutturali figlie anche del modo di intendere il Paese
I dati sulla qualità della scuola e sulla produzione industriale in Italia, riflettono carenze strutturali figlie anche del modo di intendere il Paese
Sono due “crisi” apparentemente lontane. Indipendenti, unite solo da un’inquietante contemporaneità. In realtà, i dati sulla qualità della scuola e sulla produzione industriale in Italia – in special modo nell’automotive – riflettono carenze strutturali figlie anche di uno stesso modo di intendere il Paese.
Nel caso della scuola, i recenti dati dell’Ocse confermano la pessima figura di studenti e laureati italiani. Tutti sanno dell’efficace e sconfortante immagine del diplomato finlandese che sa più del laureato italiano. Insegniamo male, in modo superato e – anello di congiunzione con l’altra crisi su cui andremo a ragionare – non consideriamo la formazione e l’insegnamento un aspetto fondamentale e imprescindibile nella vita dei nostri figli.
È una nostra responsabilità, conseguenza della sufficienza con cui guardiamo da decenni alla scuola e della considerazione ormai prossima allo zero che riserviamo agli insegnanti. I quali, a loro volta, in troppi casi reagiscono rinunciando a svolgere quella che resta una missione. Si lamentano dalla notte dei tempi di essere pagati poco. Ma nella stragrande maggioranza dei casi sono i primi a ribellarsi a qualsiasi ipotesi di valutazione del loro lavoro che consenta una modifica del mortale meccanismo per il quale tutti vanno pagati allo stesso modo. A prescindere da cura, impegno e risultati ottenuti.
Possiamo invidiare o maledire i finlandesi. La cosa resta del tutto irrilevante rispetto alla tempesta perfetta che ci siamo apparecchiato: politica bipartisan che si riempie la bocca di merito, famiglie impegnate a evitare qualsiasi “trauma” ai propri figliuoli, possibilmente fino a 25 anni. Docenti di cui si è già detto e sindacati direttamente fuori dalla storia.
Può meravigliare che un Paese così sia lo stesso che dà la sensazione di poter rinunciare a un proprio storico asset industriale come quello dell’auto? Certi fenomeni non accadono per caso e oggi per competere hai bisogno di gente maledettamente preparata. È vero che la crisi nera è quella dell’automotive (ultimi dati di produzione a -40%, da sbattere la testa nel muro) ma l’intero comparto produttivo fa -3,6. È come se l’eterna tensione fra l’Italia dell’innovazione, dell’export, delle nicchie manifatturiere, della specializzazione e il corpaccione delle fabbriche decotte e dell’inutile assistenzialismo fosse arrivato a un punto di rottura.
Stiamo molto attenti, perché il nostro deve restare un grande Paese industriale, pena condannarci a un declino vero. Se la scuola e l’università producono analfabeti funzionali, se qualcuno va in giro dicendo che bisogna rassegnarsi alla fine di intere filiere industriali, ci facciamo male. In un mondo profondamente competitivo qualcuno a scuola dovrebbe avere il coraggio di dire che chi si sottrarrà alla crescita, alla cultura, all’approfondimento e alla specializzazione si garantirà solo stenti e una vita piatta. Anche perché soldi ed eredità dei nonni prima o poi finiranno.
Di Fulvio Giuliani
La Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
Leggi anche