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I social come arma della guerra

I social sono un’arma bisogna saperla usare

Ogni guerra è fatta di propaganda, parole e fotografie ma questa è anche una battaglia a colpi di social: l’unico strumento in grado di portare alla luce ciò che Mosca si ostina ad occultare.

I social sono un’arma bisogna saperla usare

Ogni guerra è fatta di propaganda, parole e fotografie ma questa è anche una battaglia a colpi di social: l’unico strumento in grado di portare alla luce ciò che Mosca si ostina ad occultare.

I social sono un’arma bisogna saperla usare

Ogni guerra è fatta di propaganda, parole e fotografie ma questa è anche una battaglia a colpi di social: l’unico strumento in grado di portare alla luce ciò che Mosca si ostina ad occultare.

Ogni guerra è fatta di propaganda, parole e fotografie ma questa è anche una battaglia a colpi di social: l’unico strumento in grado di portare alla luce ciò che Mosca si ostina ad occultare.

Un tempo c’erano i manifesti, insieme alle immagini che scorrevano tutte uguali in televisione. Oggi ci sono i social. Ogni guerra è fatta anche di propaganda, di parole e fotografie veicolate per mostrare solo quei pezzi di verità che contribuiscono al genere di narrazione funzionale a uno scopo. Anche il conflitto fra Russia e Ucraina è fatto di questo e negli ultimi giorni tutte le piattaforme – da Facebook a Twitter, passando per TikTok e Telegram – sono invase da filmati e istantanee di quello che sta avvenendo.

A Mosca la parola d’ordine è occultare, evitare di menzionare le parole “guerra”, “conflitto”, “invasione”. Insomma, provano a far calare una cortina di silenzio su ciò che davvero sta succedendo. Ma per fortuna c’è la Rete e sebbene le tv e i giornali russi ribadiscano quotidianamente che si tratta di un’operazione per liberare i russofoni nel Donbass (come se ciò che accade nel resto dell’Ucraina non esistesse neanche), il risultato non è certo quello sperato da Putin.

Perché proprio questo tentativo di cancellare la realtà viene strenuamente denunciato sui social: se lì è stato limitato l’uso di Facebook e Twitter, resta comunque Telegram a sfuggire alle maglie della censura. Per non parlare ovviamente di quello che invece avviene oltre i confini russi. Ne sono una riprova le testimonianze, le immagini dei bombardamenti, i racconti di chi è rinchiuso in un bunkerma trova comunque il modo di comunicare con l’esterno. Anche chi è sotto le bombe ripete che il mondo deve sapere. Che si deve raccontare quel che accade, perché niente di questo assurdo conflitto venga taciuto. Basta per rendere l’idea di quanto la comunicazione, come e più che in passato, sia divenuta uno snodo cruciale. Anche per compattare ancor di più i già compatti governi e opinioni pubbliche occidentali.

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Esiste poi naturalmente – lo abbiamo visto fino a poche settimane fa per il Covid – lo spazio del complottismo. Di chi deve sentirsi fuori dal coro, per avere una voce. Anche davanti a fatti che lasciano davvero pochissimo margine a interpretazioni. Un ruolo fondamentale lo ha anche chi gestisce i social network. Un esempio è quello che è successo con le interviste realizzate per il sito del nostro giornale davanti al consolato ucraino a Milano. Il contenuto è stato bloccato da Twitter ed è probabile che c’entri molto con la possibilità da parte degli utenti di inviare segnalazioni.

Queste andrebbero però filtrate, onde evitare di far scomparire segmenti di informazione che di inappropriato non hanno davvero nulla. Sono anzi preziose testimonianze che giungono dalla viva voce di chi in Ucraina ha pezzi di famiglia o ha già perso qualcuno.

La propaganda, che è sempre stata uno strumento in mano alle dittature per zittire le voci del dissenso, può e deve invece essere schiacciata dalle prove inconfutabili di quello che sta accadendo dentro i confini ucraini. Nella consapevolezza che, com’è ovvio, ci sarà sempre qualcuno pronto a tentare di ridimensionare, minimizzare, cercare di oscurare.

Se possiamo avere un ruolo in tutto questo, è proprio quello di impedire che questo avvenga.

  di Annalisa Grandi

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