Covid, l’allarme dell’imprenditore Bottega: “20% del personale delle aziende è malato”
Roma, 13 gen. (Labitalia) – La variante Omicron si sta diffondendo sempre di più, con il numero di contagi che è schizzato alle stelle nelle ultime settimane. Numeri preoccupanti soprattutto dal punto di vista sanitario, ma in secondo luogo anche economico: sono molte, infatti, le aziende alle prese con un’allarmante carenza di personale disponibile a causa della nuova andata di Covid-19. Tra queste, l’azienda Bottega, uno dei principali produttori di vino e distillati italiani, che lancia un campanello d’allarme.
“Il virus mette in malattia, e anche il sistema delle quarantene, a rotazione, dal 10 al 20% del personale di tutte le aziende, con gli ovvi problemi di produzione collegati. Questi non comportano solo un danno economico diretto, come la mancanza delle consegne, ma in alcuni casi si presentano danni ben più gravi come il deterioramento delle materie prime fresche o la perdita della clientela. Come le mucche devono essere munte ogni giorno, anche il vino quando è pronto deve essere imbottigliato e le vigne devono essere potate. E, al tempo stesso, se la grande distribuzione si trova con gli scaffali vuoti si rivolge a un altro fornitore”, afferma il patron dell’omonima azienda, Sandro Bottega, ideatore dei ‘Prosecco Bar’.
Bottega sottolinea poi un aspetto critico: “Non va dimenticato che fino al 2021 i costi di queste assenze sono stati a carico delle imprese, nel 2022 ancora non si sa; per esempio, per ciò che riguarda la nostra azienda, si tratta di circa 6/7.000 ore all’anno, di cui una parte importante nell’ultimo mese dopo l’esplosione della variante Omicron. Il tutto è aggravato dal fatto che non si riesce a trovare sostituti perché il reddito di cittadinanza, pur encomiabile nello spirito, disincentiva molte persone ad accettare un lavoro”.
Infine, Bottega evidenzia come, in alcuni casi, uno dei problemi di fondo delle imprese del made in Italy sia una mancanza di visione: “La situazione si aggrava, però, da una visione ancor più generale del problema. La delocalizzazione non ha portato soltanto alla perdita di posti di lavoro nel nostro Paese, al trasferimento del know-how ad altre popolazioni, ma anche alla mancata evoluzione normale che avrebbe il know-how stesso; in sintesi, non ci siamo venduti solo la nostra storia e tradizione, ma anche il nostro futuro”.
“L’invito alla riflessione è, quindi, rivolto agli imprenditori che hanno delocalizzato alla ricerca di costi giustamente più competitivi, ma che al tempo stesso hanno perso anche la capacità innovativa dei propri lavoratori. Per evitare tutto questo, ci sarà bisogno di una generazione di imprenditori con visione di lungo periodo e saranno necessarie fiscalità sul costo del lavoro e sulle importazioni che permettano di armonizzare l’economicità della delocalizzazione, rendendola meno conveniente”, avverte.
“È infine necessaria la creazione condivisa di un sistema Paese, fatto di imprenditori e mezzi di comunicazione capaci di valorizzare il prodotto italiano: tutto quello che è italiano, costa di più perché migliore”, conclude.
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