Great resignation? No grazie, benessere mentale e carriera spingono a restare
Milano, 28 giu. (Labitalia) – Great resignation, big quit, quiet quitting? C’è chi dice no. E’ quanto emerge dal Global Re: work Report 2023 di Kelly, l’indagine promossa dalla società internazionale di head hunting per analizzare le esigenze e bisogni dei lavoratori tramite un’indagine a livello internazionale (Italia compresa) su un campione di 4.200 lavoratori e 1.500 dirigenti (manager e datori di lavoro).
Lo studio ha rivelato come la maggior parte delle organizzazioni non riesca a soddisfare le esigenze dei dipendenti e faccia fatica ad affrontare le sfide di un panorama lavorativo ed economico complesso e in evoluzione. Il nuovo report di Kelly, infatti, traccia il quadro di una comunità di talenti instabile, con una media del 33% dei lavoratori europei che potrebbero lasciare la propria azienda nei prossimi 12 mesi, rispetto al 28% a livello globale. E gli italiani? L’Italia conferma la media europea con il 33% dei lavoratori propenso a lasciare il proprio posto di lavoro entro un anno. Ma da questo punto di vista lo sono ancora di più tedeschi (44%), francesi (36%) e portoghesi (34%).
Tuttavia, in un quadro che vede da un lato molte aziende affrontare una crisi di talenti, poiché le competenze richieste sono sempre più difficili da trovare, e dall’altro i lavoratori che si sentono spesso sovraccaricati e trascurati, c’è un nuovo gruppo di talenti definiti ‘dedicated performer’, ovvero lavoratori ad alto valore che rimanendo più a lungo nelle aziende riescono ad avere un impatto positivo sull’efficienza e produttività, che vanno in controtendenza.
“Questo gruppo di lavoratori – spiega Dinette Koolhaas, presidente di Kelly international – ha evidenziato livelli più elevati di soddisfazione riguardo a flessibilità da parte dei loro datori di lavoro, carichi di lavoro più gestibili e una maggiore attenzione alla salute mentale Esaminando, poi, da vicino i fattori che spingono questi lavoratori a rimanere in azienda, è possibile comprendere le azioni più efficaci che le organizzazioni devono intraprendere oggi per tenersi stretti, e più a lungo, i migliori talenti”.
Dall’indagine di Kelly emergono così alcuni dei principali fattori che per i ‘dedicated performer’ influiscono maggiormente sulla scelta di rimanere in azienda. 1) La salute mentale è importante. L’88% dei ‘dedicated performer’ europei ritiene che i datori di lavoro si preoccupino della loro salute mentale, rispetto ad appena il 2% di coloro che stanno pianificando di lasciare il proprio ruolo. Questo dato da l’idea di quanto la salute e il benessere mentale influiscano in modo significativo sulla soddisfazione dei lavoratori. Di rilievo, infatti, il dato che vede il 27% dei lavoratori italiani coinvolti nell’indagine dichiarare che un carico di lavoro elevato o team con risorse insufficienti abbiano un impatto negativo sul loro benessere mentale. Dato suffragato dai colleghi tedeschi (27%) mentre è meno sentito per portoghesi (21%) e francesi (16%).
2) Il senso di appartenenza è fondamentale. Oltre la metà dei ‘dedicated performer’ (54%) dichiara di provare un senso di appartenenza alla propria azienda attuale e il 53% afferma di lavorare in un ambiente psicologicamente sicuro, rispetto ad appena il 12% di coloro che sono alla ricerca di una nuova opportunità. Dato che in rapporto alla generalità dei talenti italiani vede il 32% di loro avere senso d’appartenenza verso l’azienda, che sale al 33% per i colleghi francesi, al 37% per i portoghesi, mentre crolla al 25% per i tedeschi.
3) Lo sviluppo delle competenze è una priorità assoluta. Alla domanda sulle ragioni più importanti per cui non lasceranno il loro attuale ruolo, i lavoratori europei ‘dedicated performer’ danno la massima priorità alle buone opportunità di sviluppo delle competenze (35%), seguite da una buona progressione di carriera (33%) e da un buon equilibrio tra lavoro e vita privata (27%). Ma proprio la carriera risulta essere un tasto dolente in generale per i lavoratori, infatti quando si domanda se abbiano mai affrontato ostacoli che hanno impedito di accedere al mondo del lavoro o di avanzare nella carriera, rispondono in modo affermativo il 43% dei lavoratori italiani e portoghesi, il 44% dei francesi e ben il 50% dei lavoratori tedeschi.
4) Hanno a cuore la diversity&inclusion (dei). L’impegno di un’organizzazione nei confronti delle diversità, equità e inclusione, può avere un impatto significativo sulla capacità di rimanere nell’azienda. Infatti, i lavoratori che intendono restare nella loro attuale azienda (dedicated performer) affermano che i leader hanno comportamenti inclusivi (43%) e che ci sia diversità a tutti i livelli dell’organizzazione (49%). Con uno sguardo più in generale a livello europeo, i lavoratori italiani affermano che i loro datori di lavoro hanno comportamenti inclusivi nel 33% dei casi, per i colleghi tedeschi e francesi 31% e 34% per i lavoratori portoghesi. Mentre per quanto riguarda la diversità a tutti i livelli organizzativi, gli italiani sono d’accordo al 36% con questa affermazione, i francesi al 37%, portoghesi al 35%, chiudono i tedeschi dove solo il 29% dei lavoratori è d’accordo.
Dall’indagine emerge anche un altro fatto significativo che riguarda l’incapacità di alcune organizzazioni di ispirare e coinvolgere i propri lavoratori. I livelli di disinteresse nel lavoro, infatti, sono già significativi: il 45% dei talenti nell’area europea (45% nello specifico anche per gli italiani) hanno dichiarato che stanno fornendo solo il minimo indispensabile di ciò che il loro ruolo richiede contrattualmente, ovvero il cosiddetto quiet quitting. E se non bastasse dallo studio si può evincere come il 42% dei dirigenti intervistati afferma di non riuscire a sfruttare appieno il potenziale della propria forza lavoro e il 46% sostiene che le difficoltà di reperimento dei talenti fanno perdere opportunità di business. D’altro canto solo il 35% dei talenti europei intervistati dichiara di apprezzare le mansioni che svolge quotidianamente, con i lavoratori d’Italia e Francia (29%) che provano meno piacere, seguiti da Germania (31%) e Portogallo (32%)
Il report, poi, esamina le tendenze chiave di tutto il continente europeo per aiutare i leader a orientarsi meglio nel panorama lavorativo, tra cui la carenza di personale, la fidelizzazione e l’automazione. 1) La carenza di personale mette sotto pressione i lavoratori: il 55% dei lavoratori europei afferma che i loro team si trovano ad affrontare problemi di risorse che incidono sulla loro capacità di raggiungere gli obiettivi aziendali ogni 1 o 3 mesi.
Guardando nel dettaglio, in Italia questo fenomeno è particolarmente sentito, con il 59% dei lavoratori che subisce questa problematica, seguita da Francia (58%) e Portogallo (48%). Ma in Germania addirittura si arriva a toccare quota 65%.
2) I lavoratori hanno sentimenti contrastanti sull’automazione: l’automazione e l’AI stanno cambiando il volto del lavoro e la maggior parte dei lavoratori europei ne vede i vantaggi per l’azienda; il 69% afferma che sta avendo un impatto positivo sulle prestazioni aziendali. Dati che rimangono perlopiù allineati anche nei singoli Paesi europei, dove il 67% dei talenti italiani afferma che l’AI sarà d’aiuto per le performance aziendali, 70% per quelli francesi e portoghesi, 63% per quelli tedeschi. Tuttavia, a livello europeo solo il 39% ritiene che sia un bene per i dipendenti, percentuale che sale in Italia al 40% e Germania al 47%, mentre in Francia e Portogallo si attesta rispettivamente al 35% e 39%.
La Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
Leggi anche