Imprese: al via il Diversity brand summit
Roma, 15 feb. (Adnkronos/Labitalia) – ‘Planet-D: a diversity transition’ è il titolo della quinta edizione del Diversity brand summit, l’unico evento in Italia che riunisce e premia i brand più inclusivi, previsto giovedì 17 febbraio dalle ore 16.30 in diretta streaming su www.diversitybrandsummit.it (previa registrazione); per l’occasione, verrà presentato il Diversity brand index 2022, progetto di ricerca volto a misurare la capacità delle aziende di sviluppare con efficacia una cultura orientata alla diversity & inclusion, curato da Diversity e Focus Mgmt.
Dalla nuova ricerca emergono tendenze ed evidenze importanti: maggior maturità e consapevolezza del mercato sul valore e la forza delle tematiche di diversità e inclusione, intrecciate talvolta con le tematiche green, con le aziende sempre più impegnate in iniziative rivolte all’esterno, visibili a tutti, e consumatori e consumatrici meno ostili e più impegnati, propensi per il 77,5% nei confronti dei brand percepiti come più inclusivi, sebbene l’Italia si confermi un Paese ‘teorico’ che poco interagisce o pensa di interagire con le forme di diversità (anche se con qualche cambiamento rispetto al passato). Aumenta il net promoter score (passaparola) per le aziende più inclusive e si registra un delta potenziale del + 23% tra la crescita dei ricavi delle aziende percepite come più inclusive rispetto a quelle meno inclusive.
Actimel, Amazon, Barbie, Burger King, Coca-Cola, Decathlon, Diesel, Durex, Esselunga, Fastweb, Ferrovie dello Stato Italiane, Freeda, Google, H&M, Ikea, L’Oréal, Netflix, Sorgenia, Tim, Vodafone: questi i brand che compongono la TOP 20 del Diversity Brand Index per le loro iniziative/attività realizzate in Italia nel 2021 e la loro capacità di veicolare al mercato finale tale impegno.
“Per i brand – dichiara Francesca Vecchioni, fondatrice e presidente di Diversity – riconoscere la realtà della diversity & inclusion non è più solo un’opzione possibile, ma una condizione necessaria e urgente. Saper fare inclusione e attivarsi realmente per mettere a valore la diversità, è una sfida per molti ancora da cogliere. Come per il cambiamento climatico, per le tematiche della d&i non c’è più tempo per il bla bla bla: è arrivato il momento per le imprese di avviare la transizione che porta a una reale e autentica inclusione. Lo richiede il mercato: le persone sono sempre più consapevoli, apprezzano e premiano le aziende che dimostrano un impegno concreto sulla d&i, e ormai sono capaci di smascherare quelle che invece praticano il cosiddetto ‘diversity washing’. Per questo serve un approccio sistemico, autentico e coraggioso”.
Nel corso dell’evento del 17 febbraio saranno premiati i 2 brand capaci di lavorare concretamente sulla D&I, impattando anche sulla percezione di consumatrici e consumatori: una marca vincitrice assoluta e il brand che più di tutti ha saputo utilizzare la leva digitale per creare una cultura di inclusione. Il Diversity brand summit, condotto da Silvia Boccardi, patrocinato dalla Commissione europea, dal Cidu (Comitato interministeriale per i diritti umani) e dal Comune di Milano e con la sponsorship/partnership di Gradient ed Extra, prevede l’intervento di esperte ed esperti sul tema, fra cui Maria Chiara Carrozza, presidente del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e già ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca. Il claim del Diversity brand summit scelto quest’anno è ‘Planet-D: a diversity transition’ come auspicio a una transizione totale e sincera in ottica D&I da parte delle aziende, capaci di applicare questi principi all’esterno quanto al proprio interno.
“Le aziende – racconta Sandro Castaldo, presidente del comitato scientifico, docente presso Università Commerciale Luigi Bocconi e founding partner di Focus Mgmt- stanno cambiando il loro approccio alla d&i. Un’evoluzione guidata dal mercato finale. I brand inseguono la sensibilità di consumatrici e consumatori ed emerge tendenzialmente un comportamento reattivo più che proattivo. Il mercato finale guida i brand nel percepire una maggiore consapevolezza relativamente al proprio ruolo sociale. Le marche hanno capito che è giunto il tempo di lavorare in maniera concreta sull’inclusione, garantendo coerenza tra interno ed esterno, ma seguendo approcci differenziati. Parlare di inclusione al team aziendale è diverso rispetto al comunicare la d&i al mercato finale che vuole sempre più brand capaci di prendere una posizione e riflettere i propri valori. Consumatrici e consumatori ricercano una fiducia valoriale e i brand capaci di raggiungerla saranno in una posizione di assoluto vantaggio competitivo”.
Viene confermato infatti che le pratiche inclusive sui temi di genere e identità di genere, etnia, orientamento sessuale e affettivo, età, status socio-economico, disabilità e credo religioso (le 7 aree della diversity su cui si concentra la ricerca) impattano infatti positivamente sulla reputazione dell’azienda e sulla fiducia delle consumatrici e dei consumatori, riversandosi in un indice di passaparola positivo e risultati economici migliori. I marchi percepiti come inclusivi registrano un nps (net promoter score, indicatore del passaparola) in ulteriore crescita (+5,3%) rispetto all’anno precedente, attestandosi a +86,5%; per gli altri, lnps rimane invece molto basso, sebbene in attenuazione rispetto al 2021 (-77,2% rispetto al -90,9%): un dato che conferma come il livello di attenzione e sensibilità del mercato verso questi temi si sia comunque alzato e come vengono registrati meno ‘scivoloni’ sul tema. Si conferma inoltre il differenziale della crescita dei ricavi tra i due gruppi di aziende, con un +23% a favore di quelle percepite come maggiormente inclusive. I dati evidenziano ancora una volta come parlare di inclusione al mercato finale in maniera coerente e affidabile non abbia controindicazioni ma porti solo vantaggi.
La maggior maturità del mercato e dell’acquisizione di consapevolezza dell’importanza di questi temi da parte delle aziende emerge anche dal trend registrato in questi 5 anni delle tipologie di iniziative messe a terra e candidate, sempre più orientate verso l’esterno: è cresciuta la capacità delle aziende di differenziare le attività di d&i interne rispetto a quelle esterne. Nei primi anni del Diversity brand index i brand facevano fatica a tenere separati i due piani. Ora, nella totale consapevolezza di una necessaria coerenza tra interno ed esterno, le marche hanno compreso che il tema della d&i in una prospettiva B2C vada affrontato con approcci specifici. I dati dimostrano questa trasformazione: negli anni si è spostato il baricentro delle iniziative candidate dall’interno (scese dal 65% del 2017 al 17% del 2021) all’esterno (salite dal 35% del 2017 all’83% del 2021).
Complessivamente il campione ha indicato un numero di brand citati come ‘maggiormente inclusivi’ leggermente inferiore rispetto alla precedente edizione (366, contro i 388 dell’anno precedente, -5,7%), a conferma di due fattori: lo scoppio dell’emergenza epidemiologica ha generato una riduzione delle occasioni di contatto tra consumatrici/consumatori e brand e il top of mind ne risulta quindi limitato; è aumentato il presidio della tematica della d&i da parte dei brand, rendendo l’arena più ‘competitiva’; oggi quindi per spiccare sui temi D&I, occorre farlo in maniera più strutturata.
Sulla composizione settoriale dei primi 50 brand percepiti dal mercato come più inclusivi rispetto allo scorso anno si registrano dei rimbalzi che seguono la modifica dei comportamenti pandemici avvenuta fra il 2020 e il 2021: dopo il balzo in avanti dello scorso anno, retrocedono infatti le aziende dell’information technology (-8%) e media (-2%), insieme a healthcare & wellbeing (-2%). riguadagnano terreno invece le aziende legate al retail (+8%), in virtù di una maggiore possibilità di accedere agli spazi commerciali viste le calanti restrizioni pandemiche, che si conferma il settore più presente (28%), al Fmcg (beni di largo consumo, +2%) e ai consumer services (+2%). Proseguono la loro marcata progressione le marche dell’apparel & luxury goods (+4%.), registrando un balzo in 3 anni dal 6 al 20% e diventando il secondo settore più indicato, grazie in primis all’adozione di un’immagine più inclusiva nelle loro campagne (special collection e così via).
Cambia anche il profilo delle consumatrici e dei consumatori, dove sembra mutare il trend della polarizzazione, assumendo connotazioni meno esacerbate: se il 77,5% di consumatrici e consumatori è maggiormente propenso verso i brand più inclusivi, l’unico cluster che esprime disinteresse generale sul tema delle diversità, quello delle/degli arrabbiate/i (22,5%), quest’anno assume una connotazione “2.0”, con una nuova sensibilità sulla tematiche lgbt+ e una minore ostilità alla D&I rispetto al passato, cambiando sensibilmente il proprio profilo rispetto al passato. Pur in presenza quindi di un cluster che vive la D&I come una minaccia, soprattutto nella sua declinazione etnica e religiosa, quest’anno emerge un’apertura nei confronti di altre forme di diversità che in passato erano assolutamente rigettate (come per l’orientamento sessuale e affettivo).
Dal lato opposto, si osserva un’evoluzione interessante che parte dalla riduzione del cluster delle/dei coinvolte/i (-18,9% rispetto all’anno precedente), rappresentando oggi il 15.6% della popolazione italiana. Le persone ‘fuoriuscite’ da questo segmento alimentano 3 gruppi: aumentano le/gli impegnate/i (+8,4%.), diventando il cluster più numeroso con il 29,4%, confermando come l’impegno sulla D&I che passi necessariamente attraverso consapevolezza e coinvolgimento; nasce un nuovo gruppo, le/i Green (al 4,7%), ossia persone di base altruiste che si mostrano familiari con i temi della diversità ma poco attive, con un’attenzione verso gli altri e verso la dimensione ambientale e la sostenibilità; la componente di età più bassa del segmento delle/dei convolte/i si sposta verso il cluster delle/degli arrabbiate/i 2.0, evidenziando ancora una volta come il Covid-19 abbiamo portato le fasce più giovani della popolazione a sentirsi più sole e a vedere le persone vulnerabili come causa delle proprie limitazioni. Restano pressoché stabili le/i consapevoli (15,2%, -0,5 p.p. dalla precedente edizione), persone attente all’inclusione, ma non direttamente coinvolte, mentre diminuiscono le/i ‘tribali (12,6%, -3,8 p.p. rispetto al 2021), esplosi l’anno scorso in epoca Covid, persone tendenti all’individualismo e attente ai temi della d&i, soprattutto lgbt+, se coinvolgono il proprio nucleo familiare. In un anno nel quale le restrizioni legate alla pandemia sono diminuite, anche la dimensione “tribale” si è affievolita, determinando uno spostamento del delta verso il segmento delle/degli arrabbiate/i 2.0.
Dalla ricerca l’Italia si conferma complessivamente un Paese con un buon grado di conoscenza, familiarità e contatto sui temi della diversity ma ancora con una scarsa pratica, con un gap tra il grado effettivo di contatto e quello del coinvolgimento; dopo anni di assoluta stabilità su questo fronte, nel 2021 qualcosa è cambiato. Nello specifico, disabilità, età e status socio-economico si confermano come le tre forme di diversità sulle quali la popolazione si sente più coinvolta, mentre scende lievemente il livello di familiarità, soprattutto nelle componenti del genere e dell’orientamento sessuale, e aumenta la percezione di contatto con le aree dell’etnia e della religione, controbilanciato da una percezione di minore interazione con orientamenti sessuali diversi dal proprio.
“Il Covid-19 ha mutato le percezioni della popolazione sul tema della d&i. Il 2021 con le sue minori restrizioni rispetto al 2020 ha ulteriormente cambiato l’orientamento di italiane e italiani nei confronti della diversità” spiega Emanuele Acconciamessa, chief operating officer di Focus Mgmt. “Si conferma la dinamica del tribalismo, seppure ridimensionata rispetto al 2020. In qualche modo la pandemia ha forzato le persone a sentirsi più sole e a restringere la propria cerchia di frequentazioni. Alcuni hanno percepito la diversità, percependola all’interno del proprio nucleo, e nel momento in cui le restrizioni si sono allentate allo stesso modo tale percezione si è ridotta. Non esiste più, inoltre, un segmento totalmente negativo nei confronti della diversità a 360° ma solo verso alcune specifiche forme di diversity, evidenziando un percorso trasformativo. Permane una componente un po’ ‘rabbiosa’ delle fasce più giovani della popolazione nei confronti delle persone più vulnerabili. Emerge infine un legame tra green e inclusione. Per la prima volta dall’inizio del Diversity brand index si afferma questo binomio che sarà interessante osservare negli anni”.
La top 20 è il risultato del meticoloso percorso di ricerca Diversity brand index 2022, condotto da gennaio a dicembre 2021, che, partendo da una mappatura continua di tutte le iniziative/attività realizzate dai brand (desk analysis), ha coinvolto attraverso una survey web un campione rappresentativo della popolazione italiana composto da 1.019 rispondenti che hanno espresso le proprie percezioni in relazione ai brand percepiti come più/meno inclusivi. Sistematizzando le preferenze e le percezioni espresse da consumatrici e consumatori è stato possibile identificare le marche percepite come più inclusive alle quali è stato richiesto di candidare le iniziative/attività realizzate nel 2021 sulla d&i in una prospettiva B2C. Tali iniziative sono state valutate da un Comitato Scientifico, composto da Professoresse e Professori Universitari esperti sulle tematiche del branding, del trust e del marketing, e da un security check committee, formato da esperti delle specifiche forme di diversità. A partire dallo scorso anno, i 50 migliori brand emersi dal Diversity brand index possono richiedere e utilizzare nelle proprie attività di comunicazione il marchio di certificazione rilasciato da diversity e Focus Mgmt che ne attesta l’inserimento tra le migliori aziende in termini di impegno sulla d&i e capacità di comunicarlo al mercato finale.
La Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
Leggi anche