Lavoro domestico, Assindatcolf-Consulenti: “Quasi 2,7 mld di mancato gettito per irregolari”
Roma, 16 giu. (Labitalia) – A perderci per primo è lo Stato. Quasi 2,7 miliardi di mancato gettito tra evasione contributiva e fiscale e di questi la parte più rilevante è rappresentata dagli oneri contributivi evasi: circa 1,6 miliardi i contributi che le famiglie italiane avrebbero dovuto versare nel caso di un’assunzione regolare del collaboratore domestico. A questo si somma l’evasione fiscale derivante dalla mancata o parziale dichiarazione dei redditi dei lavoratori: secondo le ultime stime circa 1 miliardo di euro, corrispondente ad una base imponibile non dichiarata di circa 8,8 miliardi. A scattare la fotografia è lo studio dal titolo ‘Il costo nascosto del lavoro domestico’, promosso da Assindatcolf (Associazione sindacale nazionale dei datori di lavoro domestico) e realizzato da Fondazione studi consulenti del lavoro su dati Istat, Mise, Mef e su una ricerca condotta su oltre 1500 consulenti del lavoro, professionisti che assistono anche famiglie e collaboratori domestici nella gestione del rapporto di lavoro domestico al fine di ridurre il contenzioso.
Oltre allo Stato, poi, a farne le spese sono anche le stesse famiglie. Secondo le simulazioni di Fondazione Studi, a fronte di un risparmio minimo, tra il 6-8%, derivante dall’utilizzo di lavoro irregolare, i datori si accollano il rischio di arrivare a pagare il 30% in più in caso di controversia con il lavoratore. Un pericolo concreto considerando che dall’indagine condotta sui Consulenti del lavoro emerge che ogni anno su 100 rapporti di lavoro, circa 2 danno origine a controversie che, nella maggior parte dei casi, nascono dal mancato riconoscimento delle ore lavorate, tipico di un lavoro parzialmente irregolare (68,4%) o dal lavoro irregolare tout court (45,2%). Ciò determina una spesa aggiuntiva annua per le famiglie intorno ai 55 milioni di euro.
Secondo la rilevazione svolta a maggio 2022 sugli associati ad Assindatcolf, circa 2 famiglie su 10 (18,6%) hanno avuto discussioni e incomprensioni attinenti al rapporto di lavoro, che avrebbero portato nel 9,6% dei casi a una controversia o accordo economico con il lavoratore. Il 13,3% lamenta, invece, di essersi trovata nelle condizioni di non riuscire a regolarizzare completamente la situazione lavorativa del collaboratore per volontà di quest’ultimo.
“Da questa indagine -dichiara Andrea Zini, presidente di Assindatcolf- emerge chiaramente come quello domestico sia un settore atipico, nel quale alle volte i lavoratori sono la causa, per loro espressa volontà, dell’irregolarità dei rapporti di lavoro. D’altro canto è, però, anche evidente la responsabilità dello Stato e lo vogliamo ribadire con forza in occasione del 16 giugno, giornata internazionale del lavoratore domestico: senza deducibilità totale del costo del lavoro non è possibile creare una contrapposizione di interessi tra le parti e, soprattutto, assicurare dignità al comparto. Da questo punto di vista occorre considerare che i redditi vengono tassati due volte. Un assurdo se si pensa che si tratta di redistribuzione di ricchezza non essendovi fine di lucro in una famiglia che assume un domestico”.
“L’esclusione delle famiglie datrici di lavoro dagli incentivi alle assunzioni -spiega Rosario De Luca, presidente della Fondazione studi consulenti del lavoro- non solo alimenta l’idea che quello domestico sia un lavoro “diverso” dagli altri, ma esclude dagli incentivi proprio un settore per cui questi potrebbero rappresentare un valido sostegno alla regolarizzazione”.
E allora quale potrebbe essere la soluzione? Per i consulenti del lavoro lo strumento più efficace per rompere il meccanismo di connivenza che è alla base del lavoro irregolare potrebbe essere una riduzione più incisiva del costo che le famiglie sostengono per i servizi di collaborazione e assistenza domestica. Il lavoro domestico rappresenta, infatti, il 37,8% del totale sull’occupazione irregolare dipendente in Italia; se l’intero settore emergesse, il tasso di irregolarità del lavoro dipendente nel nostro Paese passerebbe dall’attuale 14,5% al 9,9%.
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