Daily Crown: lo pseudonimo di Diana che divenne il titolo di Camilla
Londra, 25 giu. (Adnkronos) – Deborah Cornwall: chi era costei? Soltanto un nome, ma con molte assonanze e carico di ironia, anche della sorte. Fu inventato dalla principessa Diana per spiazzare i suoi inseguitori, paparazzi & co., quando andava a fare le prove per il suo iconico abito nuziale, con il quale il 29 luglio del 1981 percorse, sotto gli occhi del mondo, la navata della Cattedrale di Saint Paul di Londra per raggiungere il futuro re Carlo all’altare. Lo pseudonimo, recentemente rivelato dalla stilista Elizabeth Emanuel nel documentario ‘Secrets of Diana’s Wedding Dress’, che andrà in onda sabato prossimo sul britannico Channel 5, fu utilizzato per proteggere l’identità di Diana durante la realizzazione del suo vestito da sposa. Ma quattro decenni dopo, il nome in codice è riemerso con un nuovo significato, legato non solo al titolo reale che Diana assunse per poco tempo, ma anche e soprattutto alla regina Camilla.
Secondo la Emanuel, lo pseudonimo fu scelto per motivi pratici, consentendo a Diana di presenziare alle prove e di fare chiamate con discrezione in vista delle sue nozze con il principe Carlo. Il cognome Cornwall era un omaggio al ducato detenuto dal futuro re e al titolo di cortesia che Diana avrebbe assunto al momento del matrimonio: duchessa di Cornovaglia. All’epoca, Diana era più nota come principessa di Galles, mentre oggi il titolo di duchessa di Cornovaglia è strettamente associato a Camilla (ora regina Camilla), la cui relazione con Carlo sarebbe diventata una delle narrazioni reali più controverse dell’era moderna. Per uno scherzo del destino, lo pseudonimo che Diana usava per proteggersi dalla stampa ha riecheggiato per molto tempo nel titolo adottato dalla donna spesso ritenuta responsabile della rottura del suo matrimonio.
Oltre al nome inventato da Diana, il documentario racconta gli sforzi che il team di Elizabeth e David Emanuel dovette sostenere per mantenere la segretezza sull’abito che stavano realizzando, con i giornalisti che all’epoca tentavano di corrompere il personale e che rovistavano nei cestini, spingendo i designer a buttare via campioni di tessuto pur di non fornire indizi e ad assumere due guardie di sicurezza a tempo pieno, Bert e Jim, per sorvegliare il loro studio nella zona ovest di Londra. La casa di moda arrivò perfino a creare un secondo abito da sposa di riserva. “Ho pensato: cosa succederebbe se qualcuno dovesse rubare l’abito o se scoppiasse un incendio?”, ha ricordato la Emanuel a People Magazine, aggiungendo che Diana era desiderosa di ringraziare personalmente le sarte e che una volta visitò l’atelier camuffata. “Stavano quasi piangendo”, racconta la Emanuel. “Era così affettuosa, così vera”.
L’abito finale, con uno strascico record di 7,6 metri, pizzo cucito a mano e voluminose maniche a sbuffo, consolidò lo status di Diana come icona di stile globale. Eppure, dietro la silhouette spettacolare si celava un team affiatato che lavorava in una soffitta angusta sotto forte pressione. Si dice che la vita di Diana si sia assottigliata fino a 58 centimetri durante le prove, costringendo il team a rifare parti del corpetto. “Non potevamo realizzare un abito sobrio”, ha detto David Emanuel. “Doveva essere significativo”. Per Elizabeth Emanuel, che ora disegna per star come Madonna, Dua Lipa e Rita Ora, quell’esperienza continua a plasmare la sua eredità. “Da allora ha davvero dominato la mia vita”, dice nel documentario.
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