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Alzheimer, Cagnin (UniPd): “Benefici degli anticorpi monoclonali significativi ma non sufficienti”

11 Novembre 2024

Roma, 11 nov. (Adnkronos Salute) – “Studi clinici hanno dimostrato che gli anticorpi monoclonali sono efficaci nel rimuovere l’amiloide dal cervello nelle persone con malattia di Alzheimer precoce. I benefici cognitivi e funzionali sono statisticamente significativi, ma non raggiungono la differenza minima clinicamente importante”. Lo ha detto Annachiara Cagnin, professoressa associata di Neurologia all’Università di Padova, in occasione del 54esimo Congresso nazionale della Società italiana di Neurologia (Sin) in corso a Roma.

“Le terapie farmacologiche consolidate per la malattia di Alzheimer (inibitori della colinesterasi e memantina) non modificano il decorso della malattia – spiega Cagnin – e forniscono solo un modesto beneficio clinico. Le misure dei biomarcatori di amiloide, tau e neurodegenerazione sono state parte integrante degli studi clinici sulla malattia di Alzheimer per i farmaci biologici, per la selezione dei pazienti e il monitoraggio dell’efficacia. A oggi, due anticorpi monoclonali che hanno come bersaglio la proteina beta-amiloide (donanemab e lecanemab) sono stati approvati negli Stati Uniti, in Uk, e sono in fase di valutazione da parte di altri Paesi. Anomalie di imaging correlate all’amiloide di edema vasogenico e microemorragie si verificano più frequentemente durante il trattamento – sottolinea Cagnin – Sebbene questi siano solitamente asintomatici o transitori, in alcune persone sono gravi o fatali. E’ improbabile che il targeting dell’amiloide come strategia unimodale sia sufficiente e le terapie future potrebbero dover essere multimodali, mirando a target che coinvolgono diversi meccanismi patogenetici”.

Il peso della “demenza è maggiore nella popolazione anziana dove domina la comorbilità e l’eziologia mista – conclude la neurologa – si attenua la relazione tra biomarcatori, fenotipo clinico e patologia e la fragilità e la comorbilità influiscono sulla cognitività. Ciò crea sfide nell’identificazione di terapie efficaci per le fasce d’età in cui la demenza è più diffusa”.

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