Brescianini (Amgen): “Blinatumomab cambia storia leucemia linfoblastica acuta”
Milano, 30 set. (Adnkronos Salute) – “L’anticorpo bispecifico blinatumomab ha cambiato e sta cambiando la storia della leucemia linfoblastica acuta (Lla) e le evidenze nella prima linea di trattamento prospettano un futuro, per i pazienti, assai diverso rispetto al passato”. Sono le parole di Alessandra Brescianini, direttore medico di Amgen Italia, oggi a Milano, in occasione della presentazione dei risultati dello studio clinico di FaseIII E1910, che dimostrano come l’introduzione dell’anticorpo monoclonale bispecifico blinatumomab nella prima linea di trattamento aumenti significativamente la sopravvivenza globale dei pazienti affetti da Lla da linfociti B Ph- di nuova diagnosi.
Recentemente pubblicati sul New England Journal of Medicine, i risultati dello Studio clinico di fase III E1910 dimostrano che in questi pazienti, senza tracce di malattia rilevabile (Mrd negativi), dopo il trattamento iniziale, l’aggiunta dell’anticorpo bispecifico blinatumomab alla chemioterapia di consolidamento, aumenta significativamente la sopravvivenza. L’aggiunta dell’immunoterapia allo schema di trattamento di prima linea ha infatti permesso una riduzione del rischio di morte del 59%: a circa tre anni e mezzo, infatti, l’85% dei pazienti trattati con blinatumomab è ancora vivo, rispetto al 68% dei trattati con la sola chemioterapia.
“Tengo a sottolineare che lo sviluppo di questo farmaco scaturisce dalla costante collaborazione con la comunità scientifica – aggiunge Brescianini – e in particolare con gli ematologi italiani, che hanno dato un contributo fondamentale a livello internazionale allo sviluppo di questa terapia. Si tratta di una collaborazione fattiva, che ci permette di valorizzare tutte le potenzialità di questo farmaco, come con la sperimentazione della formulazione sottocutanea di blinatumomab. Attualmente i dati confermano l’elevata efficacia di questa formulazione che potrà migliorare la qualità di vita dei pazienti consentendo loro di evitare lunghe infusioni endovenose – conclude – contribuendo in modo significativo al benessere emotivo e psicologico dei pazienti, sostenendoli nel loro percorso di cura”.
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