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Epatite C, infettivologo Puoti: “In Italia ancora pochi screening”

8 Luglio 2022

Roma, 8 lug. (Adnkronos Salute) – “L’eliminazione dell’epatite C entro il 2030 per ora rimane un auspicio e un obiettivo. Ovviamente un passo importante è lo screening nei soggetti che usano droghe per via iniettiva, nelle quali la prevalenza del virus Hcv è molto elevata. Sicuramente la disponibilità di farmaci a elevata efficacia e breve durata di somministrazione è un punto importante nella cura di questi pazienti. Tuttavia, nonostante lo Stato finanzi screening per tutti i soggetti che usano droghe per via endovenosa, in Italia si fanno ancora troppi pochi test di controllo”. Lo afferma all’Adnkronos Salute Massimo Puoti, professore di Malattie infettive dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca e direttore della Struttura complessa Malattie infettive del Grande ospedale metropolitano Niguarda di Milano.

“Dall’ultimo rapporto annuale sulle tossicodipendenze in Italia – sottolinea – emerge che, su 123.871 utenti dei Serd (Servizio per le dipendenze patologiche), sono stati sottoposti a screening per l’epatite C appena 26.576, circa il 21% del totale. Quindi noi dobbiamo intervenire sul restante 79% che non ha ancora aderito al Programma nazionale di screening. Fatto lo screening, bisogna curare i soggetti che fanno uso di droghe per endovena e curando questi soggetti si previene anche la trasmissione. Finora negli ambulatori italiani abbiamo curato con gli antivirali più di 200mila persone, adesso l’obiettivo è trovare chi ha l’epatite C e non sa ancora di averla”.

L’Organizzazione mondiale della sanità, “grazie alla disponibilità della nuova terapia breve (glecaprevir/pibrentesvir) della durata di 8 settimane in grado di guarire più del 97% delle epatiti virali C in pazienti con o senza cirrosi, per il 2030 ha inserito come obiettivo l’eliminazione dell’infezione da Hcv – ricorda Puoti – che significa ridurre la mortalità nel 65% dei casi, abbattere del 90% le nuove infezioni e curare l’80% dei pazienti. Fondamentale però resta il Programma nazionale di screening che dovrebbe far emergere il sommerso. Ovviamente ci sono delle differenze da una regione all’altra: si passa dallo 0,1% di screening della Sardegna al 93% dell’Emilia Romagna, proprio per l’eterogeneità del sistema sanitario nazionale”.

Un fenomeno “che sta emergendo negli Stati Uniti” e che “desta particolare preoccupazione – riporta l’infettivologo – è l’uso per via iniettiva di farmaci oppiacei prescritti per la terapia del dolore, tra cui l’ossicodone e il fentanil, che potenzialmente potrebbero interagire con le cure dell’epatite C. Anche in Italia, nonostante non ci sia questo allarme, questo fenomeno è in crescita: solo l’1,5% degli utenti dei Serd riferisce di fare uso di queste sostanze; tuttavia, se andiamo a vedere l’analisi del Rapporto 2022 sulle acque reflue in 33 città, ben 26 presentano tracce di anilidopiperidine del fentanil, assunto per uso terapeutico come antidolorifico, ma probabilmente anche per un uso non terapeutico”.

La buona notizia è che i dati presentati al Congresso 2022 dell’Easl (Associazione europea per lo studio del fegato), dello “studio Grand Plan che supporta l’uso di glecaprevir e pibrentesvir nei tossicodipendenti, compresi quelli che utilizzano oppiacei o anfetamine – rimarca Puoti – hanno mostrato un numero inferiore di eventi avversi o decessi. Non solo: dallo studio emerge che la combinazione dei due farmaci guarisce in sole 8 settimane con percentuali superiori al 95% anche i pazienti che usano fentanil”. Sono farmaci “sicuri anche per persone con storie di dipendenza”, assicura lo specialista. Il trattamento a breve durata “anche in pazienti che usano droghe endovena hanno un indubbio vantaggio rispetto ad altre terapie più lunghe”.

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