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Sviluppo sostenibile: a che punto siamo rispetto all’Agenda 2030

26 Gennaio 2022

(Adnkronos) –

Sviluppo sostenibile: a che punto siamo rispetto all’Agenda 2030

Complessivamente sono 17 gli obiettivi stabiliti dall’ONU con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, un documento sottoscritto nel settembre 2015 dai 193 Paesi membri delle Nazioni Unite. L’Agenda prevede una serie di interventi (complessivamente sono 169 sotto-obiettivi) per promuovere il benessere umano, proteggere l’ambiente e contribuire allo sviluppo globale. In particolare gli obiettivi o Sustainable Development Goals (SDGs) sono suddivisi in tre categorie: sociale, ambientale ed economico. Secondo quanto stabilito dall’Agenda 2030 ogni Paese deve contribuire in base alle proprie capacità al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile. A che punto è lo sviluppo sostenibile in Italia e in Europa? Adnkronos ed Expleo hanno analizzato la situazione attuale focalizzandosi in particolare sulle statistiche di sei obiettivi. I primi tre sono relativi allo sviluppo sostenibile sociale: Acqua pulita e servizi igienico sanitari; Energia pulita e accessibile; Imprese, innovazione e infrastrutture. Gli altri tre obiettivi riguardano lo sviluppo sostenibile ambientale: Consumo e produzione responsabili; La vita sott’acqua; La vita sulla Terra. Le fonti dei dati presenti nell’articolo sono, relativamente al nostro Paese: Istat, attraverso il Rapporto sui Sustainable Development Goals presenta le misure statistiche per monitorare l’Agenda 2030; Ispra, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale; Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (SNPA), che ha funzione di monitoraggio e controllo dello stato ambientale e di supporto degli enti statali, regionali e locali. Per i dati internazionali la fonte è Eurostat, che fornisce a livello di UE una panoramica dei progressi sui singoli obiettivi di sviluppo sostenibile.

L’efficienza delle risorse idriche

L’obiettivo numero 6 dell’Agenda 2030 mira a garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie. Per il raggiungimento di questo goal risulta fondamentale l’efficienza nell’uso della risorsa idrica. Purtroppo nel nostro Paese la rete di distribuzione presenta diverse problematiche che causano perdite dovute a fattori come l’estensione della rete, il deterioramento degli impianti, allacci abusivi, consumi non autorizzati, errori nella misura dei contatori. Dal report Water Management 2018 del Politecnico di Milano emerge che in Italia i guasti idrici sono circa cinque volte maggiori rispetto alla media europea. Uno dei motivi di questo dato è legato ad una scarsa manutenzione degli impianti. Si pensi ad esempio che il 60% degli acquedotti ha più di 30 anni e solo il 10% ha meno di 10 anni. Una scarsa efficienza della rete idrica italiana sottolineata anche dai dati Istat che con riferimento al 2018 indica che solo il 58% dell’acqua immessa nella rete del nostro Paese è stata erogata agli utenti. Tale percentuale per altro varia molto da regione a regione. Si va dal 77,9% della Valle d’Aosta, al primo posto per efficienza nell’uso dell’acqua, al 45,4% dell’Umbria, ultima nella graduatoria nazionale.

La rete idrica fa acqua

Aprire il rubinetto di casa e avere acqua corrente in qualunque momento è qualcosa che ci sembra assolutamente normale. Eppure ancora nel 2020 l’8,9% delle famiglie italiane lamenta disservizi nell’erogazione dell’acqua. Una percentuale leggermente inferiore al 9,2% registrato nel 2015, anno in cui entrò in vigore l’Agenda 2030 con gli obiettivi di sostenibilità. Le regioni dove si è registrato il maggior numero di lamentele sono Calabria 38,8%, Sicilia 21,9% e Abruzzo 16,9%. Proprio dal confronto tra i dati dell’efficienza del servizio idrico del 2015 e quelli del 2020 si nota come in ben 9 regioni la percentuale di famiglie che lamentano irregolarità nell’erogazione dell’acqua di casa sia aumentata. In particolare nelle Marche i reclami per disservizi sono aumentati del 105%, in Basilicata del 55%, in Campania del 27%.

Energia pulita: Italia sempre più sostenibile

L’obiettivo numero 7 dell’Agenda 2030 mira ad assicurare a tutti l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni. In questo senso diventa sempre più strategico l’utilizzo di energia rinnovabile, ovvero energia proveniente da fonti rinnovabili non fossili, nelle sue molteplici varianti: eolica, solare, aerotermica, geotermica, idrotermica, idraulica, biomassa, gas di discarica, gas residuati da processi di depurazione, biogas. Il maggior impiego di energia rinnovabile offre non solo benefici a livello ambientale come la riduzione di gas a effetto serra, ma anche effetti economici e sociali come la crescita dell’occupazione con la creazione di posti di lavoro nei settori green. A che punto siamo in Italia con l’utilizzo di energia da fonti rinnovabili? Dai dati Eurostat relativi alla quota di energia consumata da fonti rinnovabili rispetto al consumo finale lordo, emerge che nel nostro Paese negli ultimi 10 anni si è registrato un deciso incremento: dal 12,9% del 2011 al 20,4% del 2020 con una crescita di 7,5 punti percentuali. Per una volta siamo andati anche oltre quanto stabilito dall’Unione Europea che aveva richiesto di raggiungere entro il 2020 il 17% di energia consumata da fonti rinnovabili.

Svezia prima in Europa per energia da fonti rinnovabili

Con riferimento al Vecchio Continente la Svezia risulta al primo posto per quota di energia da fonti rinnovabili sul consumo totale con un’incidenza del 60% registrata nel 2020 e con un incremento di quasi 13 punti percentuali rispetto al 2011. Nella graduatoria dei paesi più green seguono Finlandia con il 43,8%, Lettonia 42,1% e Austria 36,5%. Ultimi tre stati europei per incidenza di energia consumata da fonti rinnovabili rispetto al consumo totale sono Belgio 13%, Lussemburgo 11,7% e Malta 10,7%.

Le tipologie di consumo più green

Quali sono le categorie dove si registrano i consumi più elevati di energia prodotta da fonti rinnovabili? Secondo l’Eurostat in Italia nel 2020 al primo posto c’è il consumo lordo di energia elettrica con una quota del 38,08%, seguito dal consumo per riscaldamento e raffreddamento con una quota del 19,95%, terzo posto per il consumo legato al settore trasporti con il 10,74%. Da segnalare che tutte e tre le categorie di consumo citate hanno registrato una crescita percentuale rispetto a 10 anni fa. In particolare la variazione più elevata riguarda il consumo di energia elettrica +14,5 punti percentuali rispetto al 2011. Nell’ultimo decennio in crescita anche l’utilizzo di fonti rinnovabili per riscaldamento e raffrescamento (+6,13%) e per i trasporti (+5,68%).

Spese per ricerca e sviluppo: Italia sotto la media europea

L’obiettivo numero 9 dell’Agenda 2030 dell’ONU riguarda Imprese, innovazione e infrastrutture. Nello specifico il goal mira a costruire una infrastruttura resiliente e promuovere l’innovazione e una industrializzazione equa, responsabile e sostenibile. Tra gli indicatori dello stato attuale di questo obiettivo di sostenibilità ci sono i dati relativi agli investimenti e al personale impiegato in Ricerca e Sviluppo (R&D) nei diversi settori istituzionali, con particolare riferimento alla spesa in Ricerca e Sviluppo e al suo rapporto con il PIL del Paese. Grazie ai dati Eurostat è possibile fare un confronto tra i diversi paesi europei in termini di spesa in R&D. Nel 2020 la media europea di spesa in R&D rispetto al PIL è di 1,78%. L’Italia si posiziona al di sotto della media con 1,54%. Ai primi tre posti della classifica si trovano Belgio 3,52%, Svezia 3,51%, Austria 3,22%. Il dato confortante è che dal 2015 al 2020 ben 19 Paesi europei hanno incrementato la percentuale di spesa in Ricerca e Sviluppo, soltanto 7 Paesi l’hanno ridotta. Nel periodo di riferimento il nostro Paese ha avuto un incremento del 15%.

Produzione e consumo responsabili: la questione rifiuti

Garantire modelli sostenibili di produzione e consumo è l’obiettivo numero 12 dell’Agenda 2030. Si tratta di modelli ispirati a un concetto di “fare di più e meglio con meno”, attraverso la riduzione dello sfruttamento delle risorse e dell’inquinamento dell’intero ciclo produttivo, compresa la riduzione dei rifiuti in favore del riciclo e riutilizzo. In questo senso il tasso di circolarità o di utilizzo circolare dei materiali, secondo la definizione di Eurostat, è il rapporto tra l’uso circolare dei materiali e l’uso complessivo di essi. La questione della raccolta, smaltimento e riciclo dei rifiuti urbani ha una grande importanza quando si parla di produzione e consumo sostenibili. Interessanti indicazioni emergono dalle analisi effettuate da Ispra tra il 2006 e il 2019 sulla quantità pro-capite di rifiuti urbani prodotti. Dai dati emerge un sostanziale decremento pari al 6% globale, passando dai 550 kg pro-capite prodotti nel 2006 ai 499 kg pro-capite del 2019. In questa serie temporale l’anno migliore è stato il 2013 con 486 kg di rifiuti urbani per ogni abitante. A livello di percentuale di riciclaggio dei rifiuti urbani Ispra segnala negli ultimi 10 anni un evidente trend di crescita: dal 36,7% del 2010 al 53,3% del 2019. Tale percentuale è al di sopra dell’obiettivo del 50% fissato dall’Agenda per quell’anno, considerando rifiuti di plastica, carta, metalli e vetro.

Chi ricicla di più in Europa?

L’Italia è al quarto posto nella classifica dei Paesi europei che hanno un più elevato tasso di utilizzo circolare dei materiali nel ciclo produttivo, con un trend in costante crescita dall’11,6% del 2011 al 21,6% del 2020. Un dato assolutamente positivo specie considerando che la media europea si assesta al 12,8%. Il nostro Paese è tra i più virtuosi del Vecchio Continente, dietro soltanto a Olanda (30,9%), Belgio (23%) e Francia (22,2%). Agli ultimi tre posti della graduatoria si trovano Portogallo (2,2%), Irlanda (1,8%), Romania (1,3%).

Vita sott’acqua: le aree marine protette

L’importanza della salvaguardia dell’ambiente marino è al centro dell’obiettivo numero 14 dell’Agenda 2030 che riguarda la conservazione e l’utilizzo sostenibile degli oceani e delle risorse marine. Tra i diversi elementi che stanno maggiormente influendo sull’ambiente marino ci sono la pesca intensiva, illegale, non regolamentata e la distruzione delle aree marine protette, fondamentali per preservare l’ecosistema e le biodiversità. Quanto stiamo facendo in questo senso? Secondo le statistiche riportate, in Italia le aree marine protette appartenenti a Rete Natura 2000, la Rete ecologica diffusa sul territorio dell’Unione Europea per garantire il mantenimento a lungo termine degli habitat naturali e delle specie minacciate o rare, nel 2020 hanno un’estensione complessiva di 20.716 km². Un dato in deciso incremento rispetto ai 5.738 km² del 2014. Sicilia e Sardegna sono le due regioni con maggiore estensione di aree marine protette.

I danni della pesca intensiva

Uno dei pericoli maggiori per la fauna ittica è la pesca intensiva, ovvero la raccolta del pesce che non considera l’effettiva capacità degli stock ittici di riprodursi e conduce alla pesca di un numero maggiore di pesci rispetto a quelli che nascono, con conseguenze gravi fino al rischio di estinzione di una o più specie. Dagli ultimi dati Istat in materia di sfruttamento degli stock ittici nell’area del Mediterraneo Occidentale risulta che nel 2018 il 93% degli stock ittici è eccessivamente sfruttato rispetto all’effettiva capacità di riproduzione. Un dato allarmante specie considerando che siamo tornati allo stesso livello del 2010 e nettamente superiore al 78% registrato nel 2007.

Vita sulla terra: il consumo del suolo in Italia

Tra gli obiettivi inseriti nell’Agenda 2030 c’è anche quello di preservare gli ecosistemi terrestri cercando, ove possibile, di ripristinare un uso quanto più sostenibile del suolo. Dalla protezione delle foreste al contrasto della desertificazione e del degrado del suolo, dalla salvaguardia della biodiversità al controllo delle specie alloctone, vi sono ben 21 sotto-obiettivi o indicatori da monitare costantemente. Il consumo del suolo è uno di questi. Dai dati SNPA (Sistema Nazionale Protezione Ambiente), nel 2020 nel nostro Paese si registra un consumo di suolo netto di oltre 5.175 ettari di terreno, un’area grande quasi come l’intera superficie del comune di una città come Bolzano. Rispetto agli ultimi anni il trend è però nettamente decrescente, considerando che nel 2015 il consumo di suolo netto era di 16.584 ettari. A livello regionale dai dati Ispra relativi al 2020 la Lombardia è prima in Italia per consumo di suolo con oltre 765 ettari, seguita dal Veneto con 682 ettari e dalla Puglia con 493 ettari. Per consumo di suolo netto si intende la differenza tra il suolo consumato nell’anno di riferimento e l’anno precedente.

La questione delle specie esotiche

Con la definizione specie alloctona (o esotica o aliena) si intende una qualsiasi specie animale o vegetale che a causa dell’azione intenzionale o accidentale dell’uomo colonizza un territorio diverso dal suo areale storico. L’espansione di queste specie può rappresentare una minaccia per la biodiversità, introducendo anche profondi cambiamenti nei processi biologici e può avere anche importanti impatti sociali ed economici, causando danni alle attività umane o alla salute. Ispra segnala che nell’ultimo decennio in Italia sono state introdotte volontariamente o involontariamente 133 nuove specie alloctone, con una media di circa 13 ogni anno e con una crescita esponenziale a partire dai primi dati raccolti riferiti al decennio 1900-1909.

Api a rischio estinzione

Oltre alla questione delle specie aliene, il delicato equilibrio ambientale è messo a rischio dall’estinzione di alcuni esseri viventi che hanno un ruolo fondamentale nel patrimonio agricolo e naturale. Prime fra tutte le api. Già dal 2003 sono stati registrati importanti eventi di morìa di api dovuti probabilmente ad un insieme di cause: degrado del loro habitat naturale, uso eccessivo di pesticidi, agricoltura intensiva, attacchi da parte di specie invasive. Secondo il report “Lista rossa delle api italiane minacciate” al 2018 il 24,1% delle specie presenti sul nostro territorio è a rischio estinzione. In particolare l’8% è a rischio critico, l’11,5% in pericolo, il 4,6% in stato di vulnerabilità. Sempre secondo lo studio sopra citato le cause principali sono legate al cambiamento di uso del suolo: intensificazione dell’agricoltura, urbanizzazione, cambiamenti climatici. Dati sostenuti anche dal rapporto Epilobee del 2016 che mostra come la mortalità delle api in Europa nell’inverno 2013-2014 abbia raggiunto percentuali preoccupanti specie in alcuni Paesi del Nord Europa. Prima fra tutte la Svezia con un tasso di mortalità invernale delle colonie di api del 15,4%, seguita da Danimarca 14,9% e Belgio 14,8%. Nella stessa stagione in Italia si è registrato un tasso del 4,8%.





























































































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