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Uno sguardo da non dimenticare

Gli scatti di Steve McCurry, la storia della fotografia contemporanea più iconica.

Uno sguardo da non dimenticare

Gli scatti di Steve McCurry, la storia della fotografia contemporanea più iconica.

Uno sguardo da non dimenticare

Gli scatti di Steve McCurry, la storia della fotografia contemporanea più iconica.
Nel 1979 un giovane fotografo americano entra nell’Afghanistan controllato dai mujahidin, l’invasione russa è alle porte. Attraversa il Paese, cuciti tra i vestiti ha rotoli di pellicola. Esercita l’arte del reportage, quella di chi rischia la vita per documentare quanto avviene nel mondo e che gli altri non possono o non vogliono mostrare. Si chiama Steve McCurry, si è laureato in cinematografia e teatro all’Università della Pennsylvania e scatterà l’immagine più iconica della fotografia contemporanea: “Afghan Girl”. Nel 1984 viene contattato dalla redazione del “National Geographic” per realizzare degli scatti nei campi profughi lungo la frontiera afghano-pakistana. In quello di Peshawar un gruppo di bambini si raccoglie dentro una scuola, l’atmosfera è stranamente rilassata. Tra di loro – l’espressione intensa, lo sguardo penetrante – c’è una bambina di 12 anni. I russi hanno bombardato il suo villaggio, tra le macerie ha dovuto lasciare anche i corpi dei suoi genitori. Scappata via, per due settimane ha attraverso le montagne per trovare un posto sicuro. Lo ha trovato finalmente in Pakistan. È timida, mentre i compagni alzano polvere lei si allontana. Un istante: è quello che basta alla macchina fotografica di McCurry per realizzare un’immagine che supera tempo e spazio e diventa storia, simbolo, iconografia. Per il fotografo lo scatto è una seconda scelta ma il direttore del “National Geographic” Bill Garrett intuisce il capolavoro e gli dedica la copertina. Stupore, applausi, successo. Della bambina si perdono le tracce, l’identità è ignota, rimarrà per molti anni “Afghan Girl”, la bambina dagli occhi verdi e col vestito rosso. L’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 cambia gli equilibri del mondo, gli americani invadono la regione, i contatti diventano impossibili. Nel 2002 il regime talebano crolla e il “National Geographic” organizza insieme a McCurry una spedizione per ritrovarla. Il campo profughi non esiste più, la bambina di allora è tornata in Afghanistan. Ormai ha trent’anni, un marito, tre figlie. Si chiama Sharbat Gula e non ha mai visto il suo ritratto. I due si incontrano. McCurry riconosce subito l’ex bambina, sul cui volto le rughe s’incaricano di testimoniare anni di sofferenze. Lo sguardo però non è cambiato, rimane magnetico e impenetrabile, gli occhi sempre verdissimi. Sharbat si lascia fotografare per la seconda volta. Il titolo dato dal “National Geographic” al nuovo scatto non sarà molto originale – “Ritrovata” – ma la storia resta bella lo stesso. Ora che i talebani hanno ripreso Kabul, che il silenzio si sporca di paura, che i corridoi sono stretti e per nulla umanitari e che le proteste del mondo sono soltanto un flebile brusio, a interrogare la nostra coscienza distratta rimangono gli occhi glaciali di Sharbat Gula. Vediamo di non chiudere i nostri. di Francesco Rosati

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