Una difesa europea al di fuori della Nato è altrettanto fuori dalla realtà.
Sull’onda delle immagini che arrivano dall’Afghanistan, da ultimo con il previsto terrorismo in conflitto con il fanatismo talebano, e di un racconto monco del come si sia arrivati a questo tipo di ritiro, si fa un gran parlare di
Forze armate europee. Si tratta di chiacchiere un po’ per aria, laddove la faccenda richiederebbe di star molto con i piedi per terra.
E c’è il modo di farlo seriamente e profittevolmente.
All’indomani della Seconda guerra mondiale il mettere in comune la difesa fu il primo approccio per la costruzione della Comunità. Sarebbe stata la
Ced, la Comunità europea di difesa. Al fine di prevenire ogni altra guerra, cosa di meglio che mettere in comune le armi?
La Francia si lanciò in avanti e poi frenò bruscamente, essendo in ballo il
club delle forze nucleari, il possesso della
force de frappe per essere pari ai grandi del mondo. Al di là di questo, il problema fu allora quello che è ancora oggi: mettere in comune le armi significa mettere in comune la politica estera e no, non si era pronti. Oggi lo siamo? Non proprio.
Varrà la pena di ripassare la partita libica, che appartiene al presente e non solo al passato, per rendersene conto. Diciamo che è in uso una stucchevole retorica in ragione della quale gli
antieuropeisti reclamano l’Europa che non c’è nel mentre provano a demolire quella che c’è e funziona assai bene (come gli italiani possono apprezzare, stando ancora a galla nonostante la zavorra del debito).
Difesa comune significa politica estera comune, che a sua volta richiede istituzioni comuni.
Ci vuole molta, ma molta più Europa.
Per questa ragione i costruttori di futuro imboccarono la via dell’integrazione economica, che porta alle stesse conclusioni ma può essere percorsa un pezzo alla volta. E se ne è fatta molta, di strada. Adesso, volendoci arrivare, all’unità difensiva, inutile esibirsi in irreali sparate retoriche: più produttivo il realismo. Si può fare.
Le Forze armate non sono solo stabilire chi è il nemico e se sparargli o meno,
sono tecnologia e ricerca di primissima linea.
E qui si presentano due modelli, che impongono decisioni politiche. Nel
primo modello le imprese europee restano in concorrenza fra loro, ma si rompe il legame fra i loro prodotti e l’interesse nazionale di un solo Paese. Visti gli interessi in gioco: un po’ utopico. Nel
secondo modello si spinge verso l’integrazione, in modo da creare campioni europei in grado di competere nel mondo e non solo nelle forniture nazionali.
Si prenda il settore navale: noi siano i più bravi, ma piccoli rispetto al mondo, assieme ai francesi possiamo avere ambizioni globali.
Già solo in questo settore e per una cosa tutto sommato secondaria rispetto a quello di cui stiamo parlando, è pendente da tempo una questione davanti all’Antitrust europea, con la Commissione che pone limiti e condizioni alla fusione fra cantieri. Errore, o, meglio, miopia: il mercato in cui essere concorrenziali è quello interno europeo o quello globale? Se la risposta è la prima ha ragione la Commissione, se è la seconda sta ostacolando gli interessi europei.
Ma la decisione non è mica tecnica, bensì politica. Quello è il sentiero su cui muoversi. Mica si arriva domani mattina, ci vogliono almeno 10 o 15 anni. Il che comporta il prendere decisioni politiche che domani mattina non possano essere revocate. I competitori europei si scelgono ciascuno
partner diversi nel mondo, mentre il più grande fra loro è troppo piccolo globalmente.
Lavoriamo sul lato produttivo e della ricerca, consapevoli che le ricadute civili sono enormi, integriamo quello e il resto verrà, riequilibrando anche i rapporti all’interno dell’irrinunciabile Nato.
Se, invece, come prima cosa si vogliono proporre armate con una sola bandiera, a sventolare saranno solo la faciloneria e l’inutilità.