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L’autoannientamento

La potenza nucleare della Russia messa in stato d’allerta è la manifestazione di quanto il demone del potere sia diventato paranoia. Ma un mondo post atomico non è desiderabile neanche per il plutocrate post sovietico.
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L’autoannientamento

La potenza nucleare della Russia messa in stato d’allerta è la manifestazione di quanto il demone del potere sia diventato paranoia. Ma un mondo post atomico non è desiderabile neanche per il plutocrate post sovietico.
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L’autoannientamento

La potenza nucleare della Russia messa in stato d’allerta è la manifestazione di quanto il demone del potere sia diventato paranoia. Ma un mondo post atomico non è desiderabile neanche per il plutocrate post sovietico.
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La potenza nucleare della Russia messa in stato d’allerta è la manifestazione di quanto il demone del potere sia diventato paranoia. Ma un mondo post atomico non è desiderabile neanche per il plutocrate post sovietico.
Non era mai successo, se non durante la crisi di Cuba, che una potenza nucleare mettesse in stato di allerta il proprio arsenale “fine di mondo”. Lo ha fatto Putin, irritato dalla piega che stanno prendendo le operazioni in Ucraina e dalla inattesa compattezza e determinazione delle reazioni occidentali. Ma davvero il plutocrate post sovietico sarebbe disposto a sacrificare in primo luogo il suo popolo e l’esistenza stessa della Grande Madre Russia in cui si identifica, per un delirio di potenza ottocentesco? Potenza affermata su cosa? Ammesso che riuscisse a sopravvivere insieme a una ristretta cerchia di fedelissimi, rinchiuso in un bunker nucleare, su chi e su cosa poi eserciterebbe il proprio potere? Nel lasso di tempo che la natura gli concederà, praticamente su nulla o, meglio, solo sulla ristretta cerchia di fedelissimi rinchiusa con lui in qualche rifugio blindato. Continuerebbe a vivere e morirebbe tra quattro mura di cemento e acciaio ermeticamente chiuse, respirando aria filtrata e sperando che il sistema non abbia guasti. Nessuno, infatti, potrebbe pensare di sopravvivere in un ambiente contaminato migliaia di volte più della stessa Chernobyl, sfortunata quanto pallidissima rappresentazione di un mondo post atomico. Gli stessi soldati russi che in questi giorni se ne sono impadroniti hanno potuto vedere con i loro occhi il mondo che sarebbe, se solo questa follia dovesse proseguire nella sua escalation. Sarebbero i suoi successori, almeno un paio di generazioni dopo, a potersi riaffacciare sul deserto creato dai loro nonni, per ricominciare dall’età della pietra, impossibilitati a nutrirsi se non di topi o forse di scarafaggi e formiche (se fossero commestibili). Saprebbero di trovarsi in un luogo che un tempo si chiamava Russia, ma i cui confini non andrebbero oltre la distanza che riuscirebbero a coprire a piedi. Queste cose Putin le sa, ma quando il demone del potere si trasforma in paranoia il senso delle cose si perde in un delirio finalizzato e questo finisce per contagiare anche i collaboratori più stretti, resi complici perché paralizzati dalla paura delle conseguenze immediate per un pur minimo dissenso. L’immagine più eloquente di questo terrore paralizzante è stato il balbettio del capo dei servizi segreti di fronte allo sprezzante incalzare delle domande del capo. Da plutocrati ormai abituati al lusso più sfrenato si vedrebbero trasformati in sorci ingabbiati. Dovrebbero saperlo, però, anche i cittadini della grande Russia, che dopo avere ritrovato un’apparenza di libertà e un reale benessere sarebbero nell’attimo di uno scatto d’ira spazzati via nel nulla, e più ancora dovrebbero saperlo i militari che l’arsenale nucleare controllano e che, schiacciando il bottone della fine del mondo, premerebbero il pulsante del proprio suicidio istantaneo. Spetta a loro, soprattutto, porre fine a questa follia.   di Cesare Greco

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