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Biden, la resa e la pavidità democratica

Il Partito democratico ha deciso di non decidere, prigioniero di un’abulia che potrebbe seppellirlo ben oltre la vittoria di Donald Trump

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Biden, la resa e la pavidità democratica

Il Partito democratico ha deciso di non decidere, prigioniero di un’abulia che potrebbe seppellirlo ben oltre la vittoria di Donald Trump

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Biden, la resa e la pavidità democratica

Il Partito democratico ha deciso di non decidere, prigioniero di un’abulia che potrebbe seppellirlo ben oltre la vittoria di Donald Trump

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Il Partito democratico ha deciso di non decidere, prigioniero di un’abulia che potrebbe seppellirlo ben oltre la vittoria di Donald Trump

La ‘combo’ attentato in Pennsylvania e convention repubblicana di Milwaukee – sino a pochi giorni fa per noi italiani esclusivamente location di “Happy Days” e casa di Fonzie – non poteva che mettere temporaneamente fuori gioco il Partito democratico. Rimandando almeno di alcune ore la soluzione dell’eventuale sostituzione in corsa del presidente Joe Biden.

Ancor più che dalla sua età e dagli evidenti malanni fisici, il capo della Casa Bianca è azzoppato da un sentiment generale devastante, dal quale appare improbo tirarsi fuori. Non si era mai visto, del resto, un presidente degli Stati Uniti costretto a trincerarsi dietro i medici, sostenendo che «solo loro potrebbero costringermi a ritirarmi». È qualcosa che assomiglia da vicino alla carta della disperazione, proprio nelle ore in cui ai diversi ed evidenti deficit motori e di altra natura si è aggiunto anche il fardello del Covid.

Da settimane, in realtà, la partita si sarebbe dovuta spostare nel campo del partito dem, che invece ha dato la pessima impressione di voler solo attendere la presa d’atto del proprio presidente e infine la sua resa. Posizione tutt’altro che elegante, ai limiti della vigliaccheria politica. I democratici devono molto a Joe Biden: l’uomo capace di battere quattro anni fa Donald Trump e – al netto di una vulgata via via più diffusa – di polso in passaggi di capitale importanza, a cominciare dall’aggressione della Russia all’Ucraina.

Ciò detto, nel Terzo millennio un politico così provato, debilitato, limitato persino nel movimento e nella parola è un politico improponibile. Una candidatura poggiata sulla paura e sui fantasmi suscitati da un avversario dipinto come la negazione stessa della democrazia e di molti dei princìpi alla base della Repubblica statunitense. Era un azzardo anche prima, ma dopo Butler è semplicemente un’arma inservibile. E il tempo scorre.

Può piacerci o meno, possiamo ricordare come uno dei più importanti presidenti della storia americana poté nascondere in ben quattro elezioni vinte di essere disabile (ma erano gli anni Trenta e Quaranta, quando a candidarsi era Franklin Delano Roosevelt, il mondo era un altro e c’erano i nazisti e i giapponesi da abbattere) o che John Fitzgerald Kennedy fosse dipendente dai farmaci per tenere sotto controllo i dolori alla schiena. Tutto questo può soddisfare le nostre passioni storiche, ma alla fine dei giochi non conta nulla.

Il Partito democratico ha deciso di non decidere, prigioniero di un’abulia che potrebbe seppellirlo ben oltre la vittoria di Donald Trump. Tempo ce n’è ancora ma non molto. Potrebbe essere anche l’occasione per sfuggire a quella che è apparsa una vera e propria maledizione bipartisan della politica Usa: l’ereditarietà e il familismo che dai Clinton marito e moglie, ai Bush padre, figlio e fratello agli Obama (in teoria) nuovamente marito e moglie hanno finito per ingabbiare le più sane procedure di rinnovamento interno dei partiti.

Di Fulvio Giuliani

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