Il treno arriva a Mykolaïv insieme alla speranza.
Il fischio riverbera nella nebbia – adempiendo al ruolo che da più di un secolo gli hanno assegnato i suoi progettisti – e la sagoma del treno adempie alla profezia fischiata, indugiando oltre la foschia così come annunciato. La ferrea mole rallenta quindi sotto l’arco blu della stazione per la prima volta da quando, otto mesi fa, gli stivali zetisti hanno marciato per tentare di conquistarla. La scritta “Миколаїв”, (Mykolaïv) campeggia in alto decorata dalla livrea ucraina ed è ben visibile tanto dai binari quanto dalle trincee scavate dai soldati di Zelens’kyj nell’istante in cui fu necessaria la difesa. Le avanguardie dei fascisti russi quasi lambirono la città, aspettandosi poca battaglia e quinte colonne favorevoli come già a Chersòn ma il piombo dei resistenti li ricacciò indietro, salvando pertanto anche Odesa e il residuo accesso al Mar Nero.
Questa è quindi la pace sulla riva Ovest del Nipro, infine libera dagli sgherri del criminale Putin. Un treno pieno di cittadini comuni in arrivo nella bruma del mattino come simbolo di una normalità conquistata a caro prezzo che ora i cittadini del Paese dei Girasoli si godono commossi. Purtroppo però, seppur sia un momento positivo per l’Ucraina, così come “abisso chiama abisso” così anche i fallimenti dei Vdv (paracadutisti) e dei mobiki (soldati mobilitati) russi aprono la strada a un nuovo tipo di violenza, finora relegata ai margini della società civile.
Tanto quanto i freikorps (“corpi franchi”) imperversarono in Germania dopo la sconfitta della Prima guerra mondiale facilitando l’ascesa dei nazionalsocialisti, così i mercenari del Gruppo Wagner infestano il fronte ucraino crescendo di numero e importanza a ogni disfatta subita dall’esercito regolare russo. D’altronde l’unica area sulla linea di contatto dove le Z Truppen sono all’assalto è quella di Bachmut, sezione gestita in maniera del tutto autonoma da quel Evgenij Prigožin che ai “wagneristi” paga lo stipendio. Per mantenere l’iniziativa il loro comandante sul campo Dmitrij Valer’evič Utkin è però obbligato a usare in gran numero gli zek (carcerati) reclutati come carne da cannone con modalità più o meno coatte.
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Molti di loro sono quindi combattenti di contraggenio portati ad arrendersi alla prima occasione. Come aveva fatto il cinquantacinquenne Yevgenny Nuzhin, consegnatosi in ottobre agli ucraini ma che da poco era tornato in patria dopo aver acconsentito a essere parte di uno scambio di prigionieri. L’accoglienza dei suoi commilitoni è consistita però non in abbracci bensì in due colpi di mazza da muratore sulla sua testa, attaccata a un laterizio con del nastro adesivo per dare stabilità alla superficie d’impatto. Condiviso sul canale Telegram “Grey Zone” col nome programmatico “Il martello della vendetta”, il video dell’esecuzione è stato commentato dallo stesso Prigožin, che ha definito la vittima «un cane che riceve una morte da cane».
Non pago di aver legittimato quest’esecuzione sommaria, il patron del Gruppo Wagner ha inoltre annunciato la creazione di un nuovo reparto formato da carcerati paria, chiamati “galli” nel gergo dei galeotti: un gruppo separato che agli altri prigionieri è fatto divieto persino di toccare. Prigožin dimostra così di voler portare nel mondo esterno i rituali delle carceri russe, di cui lui stesso ha fatto parte. Come se a Totò Riina fosse stato permesso di creare e inquadrare unità di “picciotti” nell’esercito italiano. Mentre un popolo emerge dalla nebbia, un altro vi si addentra.
Di Camillo Bosco
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