Metastasi Prigožin
La vittoria politica del capo della Wagner è sintomo della malattia terminale dell’imperialismo russo
Metastasi Prigožin
La vittoria politica del capo della Wagner è sintomo della malattia terminale dell’imperialismo russo
Metastasi Prigožin
La vittoria politica del capo della Wagner è sintomo della malattia terminale dell’imperialismo russo
La vittoria politica del capo della Wagner è sintomo della malattia terminale dell’imperialismo russo
«L’inverno del nostro scontento s’è mutato in gloriosa estate, sotto questo sole di Mosca!». Evgenij Prigožin avrebbe un buon motivo per parafrasare Shakespeare: il Ministero della Difesa russo ha calato le braghe senza andare a vedere se la minaccia del proprietario del Gruppo Wagner fosse o meno un bluff. La querelle fra lui e il ministro Sergej Šojgu, con il secondo che non dava replica (quantomeno pubblica) ai reiterati insulti e alle pretese del capo dei wagneriti, si è infine sanata tramite una sorta di mediazione del dittatorucolo ceceno Ramzan Kadyrov. O almeno questo pare a un osservatore esterno, ignaro dei movimenti più profondi delle camarillas moscovite. Fatto sta che il flusso delle munizioni ai mercenari andrà ad aumentare, mentre loro in cambio continueranno ad attaccare quella Bachmut di cui ormai rimangono in piedi soltanto i circa due chilometri quadrati della “cittadella” e dei suoi dintorni.
Ultimo bastione difensivo della “Fortezza Bachmut”, quest’ultima è infatti un quartiere di palazzoni sovietici nell’estrema propaggine occidentale della città che via Čajkovskij, via Liberatori del Donbas e via Giubileo delimitano come un trapezio isoscele. Dopo questa zona rimangono soltanto i campi agricoli e proprio per questo motivo gli ucraini hanno fortificato con cura le loro posizioni, riempiendo inoltre i palazzi con cariche esplosive pronte a farli crollare sugli invasori ogni volta che vengano espugnati. Per evitare questa sanguinosa prospettiva, i wagneriti cercano dal 5 maggio scorso di stanare i difensori bombardando a tappeto Bachmut con proiettili incendiari d’artiglieria che trasformano le vie devastate in fiumi di fuoco. Alla faccia della carenza di munizioni lamentata da Prigožin, le sue truppe paiono dunque ben capaci di illuminare a giorno il campo di battaglia anche nel pieno della notte.
La polemica gli è quindi servita piuttosto per ottenere un riconoscimento indiretto di quanto fondamentali siano i suoi uomini per sostenere un conflitto in cui sono tuttora coinvolti senza un mandato ufficiale. Un riconoscimento formale richiederebbe invece una modifica al codice penale russo che nessuno osa proporre, dato che la messa in regola del mercenarismo sancirebbe l’inizio di una libera corsa agli armamenti fra i vari gruppi di potere russi. Una prospettiva aborrita da Mosca e pertanto da Putin, in quanto più alto custode dell’ordine istituito dalla paranobiltà imperialista che governa le terre dal Mar Nero all’Oceano Pacifico. <<
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Al momento Prigožin ha così ottenuto il massimo possibile e ora può attendere da una posizione di forza politica che le nuove formazioni corazzate di Kyïv vengano impiegate per contrattaccare sui fianchi di Bachmut o per sfondare le trincee russe a Sud verso Melitopol’. Ogni nuova crisi sbocconcellerà infatti un altro pezzo di potere all’establishment attuale, che sarà obbligato a implorare il suo aiuto per limitare i danni. Il gioco di Prigožin – l’ex carcerato diventato signore della guerra – appare quindi assai chiaro, ma vi sono poche alternative possibili nel turbinìo shakespeariano di lotte incrociate per la sopravvivenza che questa guerra ha scatenato nell’élite della Federazione Russa.
Di Camillo Bosco
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