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Ucraina: consapevolezza e nessuna stanchezza

Ucraina: consapevolezza e nessuna stanchezza

Non è il momento della stanchezza perché dall’esito della guerra in Ucraina non dipende solo il destino di Kiev ma anche del nostro e degli equilibri del mondo
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Ucraina: consapevolezza e nessuna stanchezza

Non è il momento della stanchezza perché dall’esito della guerra in Ucraina non dipende solo il destino di Kiev ma anche del nostro e degli equilibri del mondo
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Ucraina: consapevolezza e nessuna stanchezza

Non è il momento della stanchezza perché dall’esito della guerra in Ucraina non dipende solo il destino di Kiev ma anche del nostro e degli equilibri del mondo
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Non è il momento della stanchezza perché dall’esito della guerra in Ucraina non dipende solo il destino di Kiev ma anche del nostro e degli equilibri del mondo
C’è poco da esser stanchi. Anzi nulla. Perché dall’esito della guerra in Ucraina, dopo l’aggressione e l’invasione russa, non dipende soltanto il destino di Kiev e della sua gente ma dipendono i nostri destini e gli equilibri futuri del mondo. L’invasione ordinata due anni fa da Vladimir Putin ha infatti segnato la fine delle vecchie relazioni internazionali, a cominciare da quelle fra l’Europa e Mosca. La politica di integrare la Russia commercialmente (e non solo) per avvicinarla a un sistema meno autoritario e più liberale, l’idea di aggiungere per lei un posto al tavolo del G7+1, è fallita miseramente. Era già fallita da parecchio tempo, per la verità: assai prima del 24 febbraio 2022, giorno dell’invasione. Quell’ingenua speranza si era infranta con la brutale annessione della Crimea, anche se – per pigrizia e forse un eccesso di ottimismo poco realista – i principali Paesi europei (a cominciare dalla Germania) non ne vollero prendere atto. E questo Mosca l’aveva percepito come debolezza politica. Ebbene, da due anni la compattezza dell’intero Occidente (Stati Uniti, Unione europea, Gran Bretagna) dimostra che stavolta a sbagliarsi è stato Vladimir Putin. L’Occidente non è debole. Tutt’altro. È consapevole che il mondo si trova a uno snodo fondamentale della geopolitica e della storia, a cominciare dalla guerra in Ucraina per arrivare alla situazione in Medio Oriente, agli attacchi Houthi nel Mar Rosso e agli altri focolai sparsi in giro. Perciò oggi la stanchezza non è un’opzione sul tavolo e neppure una prospettiva. Perché esser deboli significherebbe consegnare le chiavi di casa nostra e delle nostre libertà. Lasciano dunque il tempo che trovano gli innumerevoli sondaggi e rilevazioni che, nel nostro mondo libero, fioccano per misurare i presunti sentimenti dell’opinione pubblica rispetto alla guerra. Indicatori di nessun valore davanti alla necessità del presente e dei conti da fare con la realtà. Da questo punto di vista conforta che l’Unione europea – nelle sue élite e nei suoi Paesi membri (a cominciare dai più rilevanti per peso economico e popolazione come Germania, Francia e Italia) – abbia preso piena consapevolezza della impellenza, non più rinviabile, di dotarsi di una difesa comune, condivisa. Armarsi non vuol dire essere guerrafondai ma, in questa tragica fase del mondo, essere pronti a difendersi. Perché per respingere un’aggressione militare le belle parole purtroppo non bastano. Ecco allora che, dopo aver bocciato la sola idea di stanchezza, tocca sfatare un altro mito sbagliato che pure ancora resiste: giudicare come il diavolo la difesa militare e le politiche di riarmo. Non lo sono. Come non sono un’acquasanta. Ma sono necessarie per tutelare il nostro modo di campare, le nostre libertà. Basta rifletterci un attimo: se guardiamo al passato e alle diverse epoche, tutto lo sviluppo dell’Occidente è avvenuto anche grazie alla capacità militare e di difesa delle sue nazioni. Altro che stanchezza. di Massimiliano Lenzi  

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