Tre jeep Tigr (“Tigre”) dell’esercito russo procedono sgommando nella campagna ucraina. Il paesaggio di crateri e rovine denuncia la vicinanza al fronte ma l’assenza di fumi e cadaveri precisa come gli scontri si siano spostati più avanti. Da quelle parti alcuni militari sono impegnati nel posizionamento di sacchi di sabbia e reti mimetiche mentre altri scaricano munizioni e armi. Sono un gruppo di “500”. Se il Comando russo indica con “200” i morti in combattimento e con “300” i feriti, è con questo numero che invece cataloga gli otkaznik (отказник) cioè i soldati che si rifiutano (отказ) di combattere.
Conosciuti in Occidente come refusenik, questi soldati di professione russi possono infatti smettere di partecipare ai combattimenti terminando il loro contratto con lo Stato russo. Questo è possibile però solo se il Paese non è in guerra, ma data la particolare pervicacia del criminale Putin nel perseguire chiunque definisca tale la sua Operazione militare speciale, i suoi sudditi possono almeno approfittare della scappatoia formale. Firmando le dimissioni entrano comunque in un limbo, in attesa della conferma del licenziamento, e così vengono intanto usati per mansioni servili nelle retrovie. Talvolta fino alla naturale scadenza del loro servizio, spesso semestrale.
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Arrivati quindi di fronte a quel gruppo di soldati, i veicoli inchiodano. Dal Tigr mediano scende nientemeno che il generale a tre stelle Valery Nikolaevich Solodchuk, comandante della 36esima Armata del Distretto militare orientale, mentre dagli altri due sbarca e prende posizione la sua scorta di spetsnaz (uomini delle Forze speciali). Il gallonato supremo indica il refusenik più vicino a lui e gli domanda: «Quanto manca alla fine del tuo contratto?». «Una ventina di giorni, mi pare» risponde quello, intimorito. «Bene, hai venti giorni allora per morire qui per la Madrepatria» tuona il generale, deciso a motivare il gruppo di obiettori con le buone o con le cattive.
La retorica sovietica non è però in quel momento la scelta più felice: del Gruppo tattico di battaglione di cui fanno parte quegli uomini sono rimasti solo 215 dei 600 membri iniziali. I sopravvissuti ritengono che il tributo di sangue sia già stato versato, ma il testardo generale rincara la dose. «Vi ammazzo qui sul posto se non andate subito al fronte!» sbraita Solodchuk e per sottolineare il concetto estrae la sua pistola Grach dalla fondina, scaricandone il caricatore in aria. I refusenik – esasperati da quest’atto gratuito di bullismo – per tutta risposta imbracciano le armi, imitati specularmente dagli spetsnaz incaricati della difesa dell’ufficiale.
Il confronto “alla messicana” fra i due schieramenti sembra quindi destinato a finire malissimo, quando un ragazzo tra gli obiettori prende qualcosa da una cassa e si avvicina al generale che lo tiene nel mirino della pistola. «Coraggio, uccidimi!» urla, rivelando la granata che ha appena raccolto. Toglie la spoletta alla bomba con la mano sinistra ma tiene il meccanismo di innesco bloccato, stringendola nella mano destra: «Avanti, sparami! Che aspetti? Così saltiamo in aria assieme!».
Dopo qualche secondo – di quelli che paiono ore – al generale non rimane che salire sul suo Tigr e sparire all’orizzonte, battuto al suo stesso bluff. I refusenik hanno vinto. Si conclude così un altro giorno per i soldati russi sul fronte del Paese dei Girasoli, così come lo raccontano nelle telefonate alle loro mogli intercettate dal servizio segreto ucraino.
Di Camillo Bosco
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