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Un soldato russo al telefono con la mamma

Un soldato russo al telefono con la mamma

La storia di un soldato russo poco prima dell’offensiva. Una chiamata alla madre che testimonia ancora una volta la follia dello zar Putin.
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La storia di un soldato russo poco prima dell’offensiva. Una chiamata alla madre che testimonia ancora una volta la follia dello zar Putin.
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La storia di un soldato russo poco prima dell’offensiva. Una chiamata alla madre che testimonia ancora una volta la follia dello zar Putin.
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La storia di un soldato russo poco prima dell’offensiva. Una chiamata alla madre che testimonia ancora una volta la follia dello zar Putin.
«Come vanno le cose?» è la domanda della mamma all’altro capo del telefono. Da quando Meucci l’inventò, innumerevoli genitori hanno seccato i loro figli chiedendo novità sulla loro vita e ottenendo spesso solo risposte scocciate e vaghe, dacché lo scontro generazionale si combatte da sempre e su ogni fronte. Questa è però una chiamata diversa perché un evento incombe ora in concreto – non solo in televisione – anche sulle famiglie russe: война, vojnà, la guerra. «Come una merda» risponde infatti suo figlio Vladimir. Del criminale Putin condivide il nome, non certo l’entusiasmo per l’aggressione militare all’Ucraina. «Sono in prima linea, porca puttana! Gli hohol (“codini”, termine dispregiativo russo per indicare gli ucraini) ci vengono addosso da tre direzioni con mortai e carri armati. Sono nella foresta appena dopo la nostra». Le illusioni della madre si infrangono in un attimo: «Perché diavolo sei finito lì? Spiegamelo!». L’ufficiale di reclutamento le aveva assicurato per suo figlio un dispiegamento al confine o al massimo nelle retrovie, ma il problema è che questa promessa – fatta da tutti i reclutatori a tutti i reclutati – cozza con la richiesta di Mosca di fornire più carne da cannone possibile al fronte. La prevalenza del Cremlino, insomma. «Mi è stato ordinato. Dove sarei dovuto andare?» risponde infatti lui, del tutto rassegnato. «Ieri siamo pure scappati da un carro armato. Cazzo, aveva i visori termici e falciava qualsiasi cosa!». I soldati russi, privi invece di qualsiasi sistema di visione notturna, sono spesso inermi rispetto ai T-64Bm “Bulat” ucraini e alle fiammate delle loro mitragliatrici che illuminano a sprazzi il buio pesto delle notti nella gelida steppa del Paese dei Girasoli. «Oddio, e per quanto a lungo devi stare lì? Cosa dice il contratto?» chiede quindi la genitrice, mostrando ancora un po’ di fiducia nelle leggi russe. Vladimir non le nasconde nulla: «Ci si puliscono il culo. Mi hanno detto che posso ruotare solo dopo 8 mesi, ma che da qui vado via solo senza gambe, senza braccia o come “200” (numero di epoca sovietica assegnato ai soldati morti)». A questo punto la madre ha uno scatto, la voce s’incrina, urla: «Ti vengo a prendere io!». «I ragazzi dicono che ci sarà un’offensiva hohol tra venti minuti, l’hanno sentito alla radio. Come puoi venirmi a prendere?» replica lui, sempre più tetro e duro. Forse è proprio per questo che l’ha chiamata, dato che tra meno di mezz’ora potrebbe essere morto. La mamma allora inizia a piangere e a chiamarlo col nomignolo: «Vovka, perché mi dici questo? Sei il mio unico figlio, l’unico!». Si capisce però che Vladimir è in uno stato psicologico spaventoso e niente lo trattiene dal travolgerla con la descrizione del suo impegno in prima linea: «Perché scappo dai carri armati da tre giorni, porca miseria! Non facciamo che bere dalle pozzanghere, qui. Tutto è inzuppato. Tutto è distrutto». «Andrò all’ufficio reclutamento!» proclama a questo la genitrice per non farsi annientare dal senso d’impotenza, ma suo figlio Vovka è sempre scettico: «Per dirgli cosa? Comunque prova. Io qui non ci voglio stare. Non sono un guerriero e non mi hanno neanche addestrato per esserlo. Non so manco a che corpo sono assegnato, ma puoi dir loro che mi trovo a Kreminna. Dai, vado a prepararmi per l’offensiva. Ti richiamerò quando potrò». Così vanno le cose tra le file delle Z truppen.   di Camillo Bosco

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