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Da Hiroshima a Fordow ormai è tutto show

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Il tronfio paragone urlato al mondo dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump fra il raid sul sito nucleare iraniano di Fordow e il bombardamento atomico di Hiroshima.

Fordow

Da Hiroshima a Fordow ormai è tutto show

Il tronfio paragone urlato al mondo dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump fra il raid sul sito nucleare iraniano di Fordow e il bombardamento atomico di Hiroshima.

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Da Hiroshima a Fordow ormai è tutto show

Il tronfio paragone urlato al mondo dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump fra il raid sul sito nucleare iraniano di Fordow e il bombardamento atomico di Hiroshima.

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Ormai tutto è show. Si deve apparire, la sostanza è dettaglio.
Il più spettacolare e dirompente esempio è il tronfio paragone urlato al mondo dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump fra il raid sul sito nucleare iraniano di Fordow e il bombardamento atomico di Hiroshima.

“Ha messo fine alla guerra come allora”, ha dichiarato il capo della Casa Bianca, trovando naturale mettere sullo stesso piano il più devastante conflitto della storia dell’umanità e l’uso dell’arma atomica per evitare l’invasione dell’arcipelago giapponese con un unico raid in un conflitto regionale. Con la mattina in cui, per la prima volta, fu sprigionata la potenza distruttiva dell’atomo.

A proposito di storia usata à la carte, si è scelto un nome altisonante ed evocativo, “Guerra dei 12 giorni”, per definire il conflitto con l’Iran.
Chiunque abbia una conoscenza anche superficiale del XX secolo, sa che la Guerra del sei giorni fu una fulminea operazione israeliana di terra e di cielo che anticipò i piani di guerra di Egitto, Siria, Giordania e altri Paesi arabi. Volevano gettare gli ebrei a mare e furono travolti in sei giorni. Appunto.

Finì con un trionfo storico israeliano, l’ingresso a Gerusalemme, i soldati in lacrime al Muro del pianto, l’iconico generale Moshe Dayan dall’occhio bendato, il Sinai occupato, Sharm el-Sheikh israeliana, la Siria invasa, i Paesi arabi annichiliti.
Finì così perché c’era una strategia, ultimativa e disperata quanto si vuole, ma chiara e riconoscibile.

Nulla di definitivo, perché il successo fu così spettacolare da infondere negli israeliani un senso di onnipotenza che avrebbe contribuito allo shock collettivo della guerra del Kippur di sei anni più tardi. Una diretta conseguenza dei Sei giorni e, dopo l’ennesima vittoria israeliana, la svolta con l’Egitto fino alla storica pace di Camp David.

Nella “Guerra dei 12 giorni” qual era la strategia, l’obiettivo ultimo? Distruggere il programma nucleare iraniano? Se così fosse, fonti indipendenti statunitensi escludono che il target sia stato raggiunto. Danni consistenti sono stati senza alcun dubbio inferti, ma il programma non risulta ‘obliterato’ per dirla alla Trump, ma rallentato.

Se l’obiettivo, invece, fosse stato quello di abbattere la teocrazia al potere dal 1979, in 48 ore siamo passati dall’ipotesi di far fuori il regime ai ringraziamenti pubblici a Teheran per aver avvertito gli Usa della risposta di facciata di lunedì. Fino ai pomposi proclami di pace eterna. Sottinteso, mettendosi a trattare con i mullah.
Ci sarebbe anche il destino del popolo iraniano, prima bombardato e poi lasciato come e peggio di prima, nelle mani di stupratori, assassini seriali e torturatori.

Israele è più al sicuro di prima? Nell’immediato senza alcun dubbio, ma ha ormai urlato al mondo che – almeno fino a quando resterà premier Netanyahu – la propria sopravvivenza è affidata solo alla forza preponderante delle armi. E questa non è strategia.

di Fulvio Giuliani

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