Il punto non è partecipare a una festa e neanche invitare ciascuno a portare da bere. Il punto è che a farlo è stato il capo del medesimo governo che aveva chiesto agli inglesi di non organizzare raduni e di starsene ciascuno a casa propria.
Boris Johnson s’è messo nei guai perché ha prima negato e poi, quando l’evidenza lo rendeva impossibile, s’è scusato «con tutto il cuore» a Westminster, il Parlamento britannico. Ha anche aggiunto di avere partecipato per soli 25 minuti. Particolare non dimostrabile, superfluo, ma che aggiunge un ulteriore dose di non credibilità. Si tenga presente che il suo governo approcciò il problema del virus sostenendo che non si sarebbe dovuto far niente e puntando all’immunità di gregge, salvo poi precipitosamente far marcia indietro e, appunto, varare misure rigide. Poi lui stesso si è ammalato ed è stato salvato anche grazie a una assistenza difficilmente riproducibile per tutti gli inglesi. Un pasticcio, insomma. Oggi ripete, giustamente, tre volte al giorno l’invito a tutti a fare non solo il vaccino, ma in tre dosi. Subito, quale condizione per non tornare alle chiusure.
I labouristi gli chiedono di dimettersi, cosa che, tutto sommato, lo aiuta: non può cedere e il suo partito, i conservatori, non può certo mollarlo ora. Ma i malumori crescono proprio fra i suoi. Perché l’uomo è accattivante, simpatico e d’indubbia popolarità, ma i problemi irrisolti non si limitano al campo della pandemia, coinvolgendo una gestione fin qui deludente della Brexit.
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