Dal parquet al kalashnikov
| Esteri
La foto del cestista ucraino Volkov, tra i pioneri del basket sovietico, in mimetica con caschetto e fucile mostra quanto la guerra abbia costretto ogni singolo cittadino ad abbandonare la propria vita per difendere il proprio paese.

Dal parquet al kalashnikov
La foto del cestista ucraino Volkov, tra i pioneri del basket sovietico, in mimetica con caschetto e fucile mostra quanto la guerra abbia costretto ogni singolo cittadino ad abbandonare la propria vita per difendere il proprio paese.
| Esteri
Dal parquet al kalashnikov
La foto del cestista ucraino Volkov, tra i pioneri del basket sovietico, in mimetica con caschetto e fucile mostra quanto la guerra abbia costretto ogni singolo cittadino ad abbandonare la propria vita per difendere il proprio paese.
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Quelle dita così educate al tiro, nonostante la stazza, ora accarezzano un kalashnikov per le strade insanguinate di Kiev.
Oleksandr Volkov, Sasha Volkov per tutti, è uno dei simboli della pallacanestro ucraina. Quindici anni fa è stato anche eletto presidente della Federazione, dopo la carriera chiusa a Kiev e la carica di presidente del Comitato statale per lo sport, dal 1999 al 2000. Già parlamentare e ministro dello Sport, sino a qualche settimana fa era incredulo all’idea stessa della guerra, dell’invasione russa. Ora, siberiano solo di nascita, si trova al fronte per difendere l’indipendenza nazionale.
La sua è una delle tante storie che si moltiplicano in questi giorni, lasciando sempre un segno. Campioni, ex campioni, pugili, sciatori, pallavolisti, cestisti. Tutti al fronte. Mentre chi continua a fare il suo mestiere, come l’attaccante della nazionale ucraina Yarmolenko (West Ham, Premier League), piange dopo un gol.
La foto in mimetica con caschetto e fucile di Volkov è finita anche a Dino Meneghin e Carlo Recalcati, che hanno imparato a riconoscere la sua classe sul parquet negli anni Novanta – all’Olimpia Milano e poi alla Viola Reggio Calabria – prima che proseguisse la carriera tra canestri e successi in Grecia, al Panathinaikos e all’Olympiacos. I tempi delle medaglie più preziose vinte a Europei, Mondiali e Giochi olimpici sono alle spalle. Volkov ora combatte, pattuglia le strade. Definisce la guerra «un orrore».
Anche lui si è trovato l’abitazione distrutta dalle bombe firmate Vladimir Putin, nella città natale, a Chernihiv. La stessa dove recentemente sono state uccise dieci persone in fila per il pane.
Volkov è stato tra i pionieri del basket sovietico ed europeo a giocare nella Nba, nel 1989, assieme al lituano Sarunas Marciulionis. Fino ad allora la Guerra fredda aveva tenuto lontano i russi dai palazzetti americani. Giunto il disgelo, lui è finito agli Atlanta Hawks mentre Marciulonis ai Golden State Warriors.
Sei giorni dopo l’esordio nella Nba cadeva il Muro di Berlino. Volkov era un centro, di quelli che adesso sono merce rara perché il gioco ormai richiede quasi solo palleggio e tiro da tre. Battendo con l’Urss gli statunitensi ai Giochi di Seul, ha indirettamente contribuito alla creazione di quella che è stata la squadra più forte di sempre: il Dream Team di Michael Jordan, Magic Johnson e altre stelle Nba costruito per ristabilire le gerarchie alle Olimpiadi di Barcellona. Ora, dopo aver scritto la storia sul parquet, rischia la vita per restare libero.
di Nicola Sellitti
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Tag: Ucraina
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