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Eco russa del dibattito americano

Tornano toni e temi della propaganda sovietica nel dibattito Usa in vista delle prossime elezioni

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Tornano toni e temi della propaganda sovietica nel dibattito Usa in vista delle prossime elezioni

Mosca – Mercoledì scorso i mass media russi hanno provato forte imbarazzo nel commentare il duello televisivo fra Donald Trump e Kamala Harris. Alcuni quotidiani non gli hanno dedicato uno spazio in prima pagina e si sono limitati a brevi report nelle pagine interne. La delusione era evidente: il candidato per cui batte il cuore del Cremlino sicuramente non era uscito vincitore dal confronto e alcuni giornali come “Kommersant” (un tempo liberale e ora ‘allineato e coperto’) hanno dovuto ammettere a denti stretti che «per Trump non è stata una serata facile».

Malgrado ciò la macchina propagandistica del regime si è ripresa subito dal piccolo shock e ha iniziato a imbastire una nuova chiave di lettura della campagna elettorale Usa. E cioè quella di una campagna truccata, di un’America che ha sempre avuto una vocazione totalitaria e anti-russa e le cui elezioni sono decise da grandi gruppi economici e dall’apparato militar-industriale. Un’interpretazione marxista a grana grossa, ripresa dai voluminosi abbecedari di marxismo-leninismo che tutti gli studenti sovietici dovevano un tempo mandare a memoria e che evidentemente non sono rimasti a prender polvere sugli scaffali.

In questa ‘ribrandizzazione’ della lettura della campagna elettorale americana si è distinta Margarita Simonyan, pasionaria del putinismo più aggressivo e direttrice di “RT News”. Durante il talk show serale del conduttore Vladimir Soloviev, la giornalista di origine armena si è lanciata in una invettiva contro gli Usa che «tutto infangano nel mondo già dal XVIII secolo». Per dimostrare al pubblico a quali bassezze sia giunto il sistema americano ha voluto ricordare il periodo del maccartismo e di quella che fu definita “la caccia alle streghe” contro individui più o meno realmente collegati allo spionaggio sovietico. «Il senatore McCarthy – ha sostenuto Simonyan con piglio da soubrette di terzo rango – si sollazzò con i suoi giochini della lotta al comunismo per quattro anni e poi alcolizzato morì per cirrosi epatica. Questo è il totalitarismo americano che vorrebbero far passare come grande democrazia anche in questa campagna elettorale».

Il livello della rampogna non meriterebbe neppure una replica, ma il tempo passa e qualcuno potrebbe essersi dimenticato del contesto storico in cui si produsse il fenomeno del maccartismo e cioè quello del periodo più duro della Guerra fredda. Mentre in Urss e nei suoi Paesi satelliti attivisti politici e dei diritti umani, uomini religiosi, intellettuali e anche moltissimi comuni cittadini venivano imprigionati, fucilati o spediti nei campi di concentramento, le democrazie cercarono di difendersi e commisero talvolta anche errori. Però McCarthy venne poi censurato ed emarginato e sono stati scritti molti libri e girati molti film su quel periodo che hanno messo in luce illegalità e drammi umani che sicuramente ci furono.

Invece in Russia, a parte il breve periodo della glasnost gorbacioviana, si è tornati a giustificare in ogni modo «le inevitabili asprezze di un periodo della nostra storia», come ama ripetere proprio la Simonyan. Si capisce così che alla leadership putiniana ciò che non va giù, in ultima istanza, non è neppure una questione di Trump o di Harris, di repubblicani o di democratici, ma di un intero modo di vedere la realtà che si associa alla libertà di pensiero, di stili di vita, di organizzazione.

di Yurii Colombo

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