Gaza, Jens Laerke: “In guerra mai usare la fame come arma”
Laerke, portavoce dell’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), lancia un appello alle maggiori leadership internazionali
Gaza, Jens Laerke: “In guerra mai usare la fame come arma”
Laerke, portavoce dell’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), lancia un appello alle maggiori leadership internazionali
Gaza, Jens Laerke: “In guerra mai usare la fame come arma”
Laerke, portavoce dell’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), lancia un appello alle maggiori leadership internazionali
«La storia ci osserva. Lo fanno anche le famiglie che non hanno nulla da sfamare per i propri figli e nessuna casa in cui tornare. Ogni ora persa significa più vite perse e un futuro compromesso. Non perdiamo tempo: abbiamo bisogno che tutti i punti di ingresso siano aperti agli aiuti umanitari e che il blocco di Gaza finisca, che gli ostaggi vengano rilasciati e che inizi un cessate il fuoco duraturo. La fame non dovrebbe mai essere usata come arma. Gli ospedali non dovrebbero mai essere campi di battaglia. Ma stiamo assistendo a entrambe le cose». Questo l’appello accorato alle maggiori leadership internazionali affidato in esclusiva a La Ragione da Jens Laerke, portavoce dell’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA).
Centinaia di migliaia di palestinesi soffrono l’inimmaginabile. Come fermare questo incubo?
«In quanto organizzazione umanitaria, l’OCHA non può imporre la pace. Ma possiamo fare ciò per cui è stata creata anche l’ONU: dire la verità, portare soccorso e difendere la dignità umana. I nostri team sono sul campo, anche a Gaza, in Cisgiordania e in tutta la regione, documentando i bisogni, coordinando gli aiuti e contestando qualsiasi restrizione contraria al diritto internazionale umanitario. La fame non dovrebbe mai essere usata come arma. Gli ospedali non dovrebbero mai essere campi di battaglia. Ma stiamo assistendo a entrambe le cose. Ciò che l’OCHA può fare, e sta facendo, è denunciare questa realtà, fare pressione per un accesso umanitario senza ostacoli e collaborare con coraggiosi partner palestinesi e internazionali per far arrivare aiuti a chi ne ha più bisogno. Ma non possiamo sostituirci all’azione politica necessaria per porre fine al caos».
Il mondo deve agire con urgenza per salvare i gazawi e gli ostaggi israeliani. Le leadership internazionali, oltre alle dichiarazioni formali, hanno fatto poco e nulla. Perché?
«Stiamo assistendo a una catastrofe provocata dall’uomo che si sta consumando a Gaza. Ogni ora persa significa più vite perse e un futuro compromesso. Ciò che vediamo sul campo è una crisi umanitaria. Abbiamo lanciato l’allarme più e più volte: la carestia è imminente, i civili non sono protetti e il diritto internazionale viene minato alla luce del sole. Abbiamo bisogno di un accesso agli aiuti duraturo, sicuro e senza ostacoli per aiutare gli oltre 2 milioni di persone a Gaza. Abbiamo bisogno che le ostilità cessino e che si assuma la responsabilità delle violazioni del diritto internazionale umanitario, chiunque le commetta. La storia ci osserva, ma soprattutto, lo fanno anche le famiglie che non hanno nulla da sfamare per i propri figli e nessuna casa in cui tornare».
Il 23 giugno, finalmente la tregua tra Israele e Iran. Mentre su Gaza, di nuovo il silenzio e il calvario continua. Qual è la stima delle vittime?
«Anche prima che l’attenzione pubblica si spostasse, con l’escalation militare tra Iran e Israele, Gaza era un luogo in cui i civili erano intrappolati, affamati e bombardati, mentre il mondo non interveniva. Oltre 55.000 persone, tra cui 16.000 bambini, sono state uccise a Gaza dall’ottobre 2023. Noi e i nostri partner umanitari stiamo facendo tutto il possibile per alleviare le sofferenze. Ma sia chiaro: agli operatori umanitari viene chiesto di effettuare il triage sui sopravvissuti in una zona di morte. Ciò di cui abbiamo urgente bisogno è la volontà politica di premere per un cessate il fuoco, rispettare il diritto internazionale e consentire alle nostre operazioni umanitarie di raggiungere le persone in difficoltà».
Molti chirurghi e operatori sanitari che si sono recati a Gaza come volontari affiliati all’Onu, denunciano che le forze israeliane hanno negato il loro ingresso. Le risulta?
«Non sono a conoscenza di questo. Quello che posso dire è che negare al personale medico l’accesso a una zona di guerra dove i sistemi sanitari sono al collasso è una condanna a morte per molti civili».
Jake Wood, della GHF, Gaza Humanitarian Foundation, a fine maggio si era dimesso denunciando l’impossibilità di operare senza compromettere i principi fondamentali di umanità, imparzialità e neutralità. La ong, creata da Israele con l’appoggio Usa, anche ieri ha sospeso la consegna di cibo. Cosa pensa?
«Non farò speculazioni sulle motivazioni di alcuna singola persona o organizzazione. Le Nazioni Unite non fanno parte di questa operazione, ma abbiamo espresso la nostra preoccupazione che essa alimenti gli sfollamenti, lasci indietro i vulnerabili, esponga migliaia di persone a pericoli e militarizzi gli aiuti. Tutto ciò crea un pericoloso precedente globale. Invece, abbiamo un piano che funziona: quasi 180.000 pallet di cibo e altri aiuti salvavita sono pronti nella regione per entrare a Gaza. Gli aiuti sono stati pagati da tutto il mondo, sono sdoganati e pronti per essere spediti. Possiamo ottenere gli aiuti immediatamente, su larga scala e per tutto il tempo necessario. Lo abbiamo già fatto in passato: decine di migliaia di camion sono entrati a Gaza durante il cessate il fuoco, e gli aiuti hanno raggiunto quasi ogni singola persona nella Striscia. Non perdiamo tempo: abbiamo bisogno che tutti i punti di ingresso siano aperti per l’ingresso degli aiuti. Abbiamo bisogno che il blocco di Gaza finisca, che gli ostaggi vengano rilasciati e che inizi un cessate il fuoco duraturo. Facciamo il nostro lavoro».
Di Anna Germoni
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