Gaza, se questo è un cessate il fuoco
Siamo consapevoli di non avere alternative a questo alternarsi di flebili speranze e giornate nere nella Striscia di Gaza
Gaza, se questo è un cessate il fuoco
Siamo consapevoli di non avere alternative a questo alternarsi di flebili speranze e giornate nere nella Striscia di Gaza
Gaza, se questo è un cessate il fuoco
Siamo consapevoli di non avere alternative a questo alternarsi di flebili speranze e giornate nere nella Striscia di Gaza
Siamo consapevoli di non avere alternative a questo alternarsi di flebili speranze e giornate nere nella Striscia di Gaza.
Come l’altro ieri, quando il cessate il fuoco più che apparire a rischio è stato semplicemente ignorato. Poi ripristinato da Israele, mentre i terroristi di Hamas continuavano il macabro rituale di sempre.
Giocando con la vita dei palestinesi tenuti in ostaggio. E negli ultimi giorni anche con i poveri resti dei tanti ostaggi che non ce l’hanno fatta. Quelli che Israele vuole riconsegnare almeno al ricordo dei loro cari e che i responsabili della mattanza del 7 ottobre 2023 non riescono a restituire.
Fonti di Gaza City parlano di 100 morti o oltre in 24 ore, fra cui 46 minori
Fonti di Gaza City parlano di 100 morti o oltre in 24 ore, fra cui 46 minori. 100 morti e parliamo di cessate il fuoco.
Siamo onesti: questa non è una tregua, è un ballare sull’orlo del disastro, nella speranza che i diversi attori sappiano contenersi. L’unico garante di questa fragilissima costruzione restano gli Stati Uniti d’America e il presidente Donald Trump in prima persona. Il resto è contorno, pur senza mai dimenticare il ruolo di mediatori fondamentali quali l’Egitto e il Qatar per arrivare almeno dove ci troviamo oggi.
Però, nelle giornate in cui tutto sembra poter saltare per aria, è a Trump che si guarda, perché resta l’unico in grado di minacciare con eguale forza Hamas di essere spazzati via con una ripresa totale della guerra e lo stesso Benjamin Netanyahu con l’”arma finale” del ritiro del sostegno politico.
Il problema è che il leader israeliano si trova in un vicolo sempre più stretto, pressato da Donald Trump perché non rovini la costruzione a cui tiene in prima persona, con le fotografie di Sharm el-Sheikh da consegnare alla storia, e gli ultraortodossi all’assalto in patria. Pensare che soggetti del genere possano decidere delle sorti del governo di uno Stato democratico e tengano in mano i destini di Netanyahu spiega molto, quasi tutto di quello che sta accadendo.
Senza una vera forza di interposizione sul terreno non si riuscirà a garantire alla lunga (forse neanche in breve) il cessate il fuoco. Chi, però?
Intanto si pone un problema gigantesco: è del tutto evidente che senza una vera forza di interposizione sul terreno non si riuscirà a garantire alla lunga (forse neanche in breve) il cessate il fuoco. Chi, però? Donald Trump ha detto che non manderà neppure un soldato, la Turchia è fuori dai giochi, perché i rapporti con Israele sono inesistenti. Gli Stati arabi moderati sono stati fondamentali nelle trattative, ma non hanno forze armate credibili per un compito del genere. L’Europa è esclusa, potrà partecipare con quote di rappresentanza – Italia compresa – ma l’esperienza di Unifil e i duri contrasti con Israele escludono una presenza massiccia.
Resta l’Egitto. Solo che Al Sisi è guardato comunque con una quota di sospetto da Israele ma anche dai palestinesi, che non ha mai fatto mistero di non voler vedere sul proprio territorio. Per tacere di Hamas, di cui è un nemico giurato. Questo è il filo del rasoio su cui ci muoviamo tutti.
di Fulvio Giuliani
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