Oltre l’invasione di Gaza
Oltre l’invasione di Gaza
Oltre l’invasione di Gaza
Fra le analisi strategiche formulate sulla soluzione politica e militare per la crisi di Gaza merita attenzione quella illustrata in un editoriale di Michael Milhshtein su “Haaretz”, noto giornale progressista israeliano.
La prima ipotesi è quella della rioccupazione della Striscia di Gaza, un obiettivo gradito alla destra del Partito sionista religioso che vorrebbe ristabilire gli insediamenti abbandonati nel 2005. Il rischio sarebbe però quello di un “modello Iraq” del 2003: una dura sfida alla sicurezza, un fardello economico e un colpo per la posizione internazionale del Paese, una scelta contraria a quella compiuta da Ben Gurion e Moshe Dayan che decisero di ritirarsi da Gaza dopo la guerra del Sinai.
La seconda alternativa sono un’ampia invasione di Gaza e il conseguente rovesciamento del regime di Hamas, seguiti dal ritiro immediato da quel territorio. Il pericolo è però quello di un vuoto che verrebbe occupato dagli estremisti e dagli altri jihadisti della regione: Gaza diventerebbe come l’Afghanistan, la Siria o la Somalia; un ribat, il termine arabo che indica uno spazio di frontiera o un avamposto della jihad.
La terza ipotesi è a favore di un’Autorità palestinese che riesca a tornare nella Striscia di Gaza: una mossa incerta data la debolezza dell’Autorità nel governare la stessa Cisgiordania, come dimostrato dalle proteste in atto. A Gaza è poi cresciuta un’intera generazione educata a considerarla come complice di Israele ed elemento ostile alla popolazione della Striscia.
Sarebbe perciò centrale la quarta alternativa che i consiglieri per la sicurezza statunitensi starebbero in concreto discutendo con Israele: una volta rovesciato il governo di Hamas, andrebbe creata un’amministrazione provvisoria simile a quella istituita in Iraq, composta da rappresentanti delle forze locali, sindaci, tribù, clan e Ong, insieme a figure di spicco di Fatah. I vincoli da osservare dovrebbero però essere un rapporto stretto con l’Autorità palestinese e il coinvolgimento almeno di Egitto, Stati Uniti nonché di Stati del Golfo come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Per Milhshtein andrebbe invece evitato un coinvolgimento del Qatar, la cui alleanza con Hamas alla fine ha danneggiato gli interessi nazionali di Israele.
Esisterebbe anche un quinto scenario qualora tutte le altre alternative fallissero: un governo con elementi «tratti da Hamas ma da esso ‘amputati’», privo di capacità militari, con un’influenza politica limitata e competenze circoscritte alla gestione dei servizi civili, vincolato ad accettare la presenza dell’Autorità palestinese e in ogni caso suscettibile di qualsiasi intervento di Israele qualora cercasse di sviluppare capacità militari. In questo caso si dovrebbe favorire un movimento di protesta interno contro Hamas, che si vedrebbe costretto ad adeguarsi a un nuovo ordine.
Anche agli occhi degli occidentali è probabile che la soluzione più praticabile sia la quarta qui descritta, basata su un’amministrazione provvisoria il più possibile inclusiva delle rappresentanze locali e con un ruolo di garanzia svolto da Nazioni Unite (che andrebbero recuperate nel processo di pace), Stati Uniti, Unione europea e principali Stati arabi. Si tratterà ora di convincere soprattutto il mondo arabo della validità di questo progetto, riprendendo anche il percorso di pacificazione nell’area intrapreso con gli Accordi di Abramo.
di Maurizio Delli Santi
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