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Gli sforzi dell’Unione europea per sedare la crisi fra Kosovo e Serbia
L’emergenza balcanica non è una novità ed è da molti anni che l’Ue tenta di richiamare all’ordine i suoi protagonisti
Gli sforzi dell’Unione europea per sedare la crisi fra Kosovo e Serbia
L’emergenza balcanica non è una novità ed è da molti anni che l’Ue tenta di richiamare all’ordine i suoi protagonisti
Gli sforzi dell’Unione europea per sedare la crisi fra Kosovo e Serbia
L’emergenza balcanica non è una novità ed è da molti anni che l’Ue tenta di richiamare all’ordine i suoi protagonisti
L’emergenza balcanica non è una novità ed è da molti anni che l’Ue tenta di richiamare all’ordine i suoi protagonisti
I vertici europei continuano l’enorme lavoro diplomatico per sedare la crisi fra Kosovo e Serbia, ma di fronte alle condanne, ai comunicati istituzionali e ai numerosi bilaterali con i capi di governo dei due Paesi viene da chiedersi se l’Unione riuscirà a incidere sul dialogo – ottenendo la svolta auspicata dalla comunità internazionale – o se si tratterà dell’ennesimo buco nell’acqua. Del resto, l’emergenza balcanica non è una novità e da anni l’Ue tenta di richiamare all’ordine i suoi protagonisti.
Ma sarebbe un errore spiegare questo stallo addossandone le responsabilità all’Europa, dal momento che in queste settimane – con l’emergenza aggravata dalle manifestazioni della minoranza serba e il processo per la strage di Banjska – il Kosovo ha remato contro un possibile piano di distensione. Ne è un esempio la recente visita del premier Albin Kurti a Bruxelles in occasione di un incontro con Gert Jan Koopman, responsabile dei negoziati per l’allargamento dell’Unione. Di tutte le riunioni tenutesi in questi mesi, quella con Koopman è stata particolarmente importante perché si è discusso specificatamente dei progressi compiuti da Pristina per la futura adesione all’Ue.
Kurti ha riaffermato l’impegno del Kosovo nella realizzazione del mercato regionale comune e il ruolo del Paese nell’avvicinamento fra Unione europea e Balcani, soprattutto – ha dichiarato il premier – «all’alba del decimo anniversario del processo di Berlino» ovvero del meccanismo di cooperazione intergovernativa su infrastrutture e investimenti nella regione inaugurato nel 2014, secondo Kurti «necessario per portare i Balcani agli standard europei». Ma la candidatura per l’ingresso in Ue necessita la condizione insindacabile di una pace con Belgrado ed è qui che i toni del premier cambiano, tant’è che di fronte alle pressioni europee sul dialogo Kurti minimizza le proprie responsabilità: l’escalation militare è voluta e minacciata soltanto dalla Serbia.
Che Aleksandar Vučić ricorra spesso e volentieri alla retorica sciovinista è un dato di fatto, ma evitare il discorso sulla chiusura forzata delle municipalità serbe nel Nord – un provvedimento stigmatizzato da Europa e Stati Uniti – è un esempio plateale di come il governo kosovaro si rifiuti di ammettere la gravità delle proprie iniziative unilaterali. Fra queste, il recente comunicato di Kurti in merito al processo per Banjska: «La Serbia è responsabile [della strage, ndr.] e la Serbia dovrà risponderne». Un’accusa rilanciata con il ricordo degli agenti «caduti in servizio per combattere i terroristi del gruppo di Milan Radoičić, addestrato in Serbia e finanziato da Belgrado». La stessa aggressività la troviamo nelle parole della presidente Vjosa Osmani che, di fronte agli inviti statunitensi a rispettare l’accordo di Ocrida per la normalizzazione dei rapporti con la Serbia, ha risposto: «L’accordo diviso in parti non ha alcun significato e non ha senso che venga attuato unilateralmente dal Kosovo, mentre l’altra parte sfugge completamente ai suoi obblighi».
Quello del Kosovo è un muro che ostacola l’impegno occidentale per la normalizzazione dei rapporti con la Serbia (sempre più legata al Cremlino) e l’aggressività diplomatica di Pristina peggiora la situazione adesso che il presidente annuncia – nonostante le preoccupazioni europee e americane – la creazione dell’esercito nazionale. Un annuncio che Vučić ha già iniziato a usare come giustificazione per una possibile «soluzione militare».
di Antonio Pellegrino
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