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Giovani britannici a casa

I giovani britannici restano a casa

In Inghilterra sempre più giovani faticano a lasciare le famiglie e, di conseguenza, contribuiscono meno all’economia e alla crescita demografica del Paese
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I giovani britannici restano a casa

In Inghilterra sempre più giovani faticano a lasciare le famiglie e, di conseguenza, contribuiscono meno all’economia e alla crescita demografica del Paese
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I giovani britannici restano a casa

In Inghilterra sempre più giovani faticano a lasciare le famiglie e, di conseguenza, contribuiscono meno all’economia e alla crescita demografica del Paese
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In Inghilterra sempre più giovani faticano a lasciare le famiglie e, di conseguenza, contribuiscono meno all’economia e alla crescita demografica del Paese
Londra – Erano i primi anni Novanta quando venticinquenne approdavo nella capitale dell’Inghilterra. Secondo la media italiana, lasciavo la famiglia ‘presto‘. Rispetto ai miei coetanei britannici ero però in ritardo: erano andati a vivere da soli prima dei vent’anni. Chi studiava all’università non tornava a vivere in famiglia al termine degli studi. Quelli invece che non l’avevano frequentata avevano comunque trovato una sistemazione. All’epoca i genitori erano responsabili economicamente per i figli fino ai 16 anni e la cosa veniva presa più o meno alla lettera. L’università era una questione di classe, così come gli alloggi. Gran parte della popolazione britannica viveva in case dello Stato e i figli smettevano di studiare presto. Era un fatto scontato che, terminata la scuola dell’obbligo, i giovani andassero a vivere da soli. Anche se disoccupati, a loro avrebbe dovuto pensarci lo Stato. Noi giovani italiani eravamo considerati dei “mammoni“. A nulla valeva spiegare la difficoltà di rendersi economicamente indipendenti. I britannici conoscevano soltanto il welfare: lo Stato pagava alloggio e sussidi; una realtà non assistenzialistica per loro era inconcepibile. Trent’anni dopo il panorama non potrebbe essere più diverso. Quella della Gran Bretagna è stata una trasformazione radicale. Come Margaret Thatcher, Tony Blair sognava di fare di ogni britannico un proprietario immobiliare, ma poiché anelava a una maggiore mobilità sociale lo voleva anche laureato. Non riuscì nell’intento, ma contribuì alla creazione di una classe media. L’assistenzialismo fu sostituito da una spinta all’opportunità: mutui al 100% e università accessibili. Il crollo bancario del 2008 (un anno dopo l’arrivo di Gordon Brown) segnò la battuta d’arresto del sogno del New Labour – naufragato proprio sui mutui – e con l’ascesa di David Cameron lo smantellamento definitivo del welfare divenne un fatto. Sulla carta Stato snello e opportunità dovevano procedere di pari passo, ma stando alle statistiche qualcosa è andato storto. Da alcuni anni i giovani britannici faticano a lasciare le famiglie e di conseguenza fanno sempre meno figli. Un problema che in Italia conosciamo bene. Oggi però non ci chiamano più “mammoni”. Nel 2021 il 43% dei venticinquenni britannici viveva ancora in famiglia contro il 36% del 1996. Una crescita costante. Tra il 2011 e il 2021 l’età media dei giovani ancora a casa è passata dai 23 ai 24 anni. Nello stesso decennio il tasso di natalità è sceso dall’1,93 all’1,61: una media ancora alta rispetto al magro 1,24 italiano ma verso la medesima direzione. Sono dati sintomatici della difficoltà crescente dei giovani a rendersi indipendenti in una realtà dominata dall’instabilità, dall’aumento del costo della vita e dalla crescita esponenziale dei prezzi degli immobili e degli affitti. L’opportunità si è scontrata con la diminuzione delle possibilità. Più a lungo i giovani restano a casa, meno contribuiscono all’economia e alla crescita demografica. In sostanza, si è passati dall’insostenibilità dell’assistenzialismo all’insostenibilità della sua assenza. Quella della ricerca di un modello economico sostenibile che oltrepassi i vecchi schemi si prospetta come la vera sfida del XXI secolo, in Gran Bretagna come altrove.   di Alessandra Libutti

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