AUTORE: Marco Di Liddo
Dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, il Presidente statunitense Biden ha adottato una strategia di comunicazione molto aggressiva nei confronti dell’omologo russo Vladimir Putin, non esitando a definirlo un “criminale di guerra” e un “macellaio” e arrivando addirittura a dire, seppur non ufficialmente, che non dovrebbe governare la Russia. Nella storia delle relazioni tra Washington e Mosca, mai nessun inquilino della Casa Bianca si era spinto a tanto. Con molta probabilità, la strategia di comunicazione statunitense risponde al triplice obbiettivo di provocare Putin, consolidare il fronte euro-atlantico attraverso una retorica diretta e dai toni forti ed infine toccare le corde dell’elettorato americano in un momento di consenso non eccezionale. Tuttavia, la frase sul non dover governare la Russia tradisce un antico desiderio delle amministrazioni statunitensi: quello di volere una Russia fragile e debole sul piano internazionale, disposta ad accettare il capitale americano nel business dell’energia e delle materie prime, possibilmente retta da un leader incline a non interferire con le strategie e gli obbiettivi americani nell’arena globale. Per questo alla Casa Bianca amarono molto Gorbaciov (odiato dal popolo russo) ed Eltsin (timoniere alticcio nella burrasca degli anni 90). Per questo stesso motivo, gli americani vedono in Putin un pericolo soprattutto per quanto la Russia è riuscita ad ottenere in politica estera con mezzi limitati e speculando sulla divisione e sulla debolezza dell’Occidente.
Basti pensare alla Georgia, alla Siria, alla Libia, all’Africa e alla stessa Ucraina oppure alle interferenze elettorali e alle operazioni di influenza negli Stati Uniti e in Europa. Il problema di questo sogno americano è che una Russia debole rischia di disintegrarsi e, di conseguenza, di perdere il controllo su parte del suo gigantesco arsenale militare (convenzionale, nucleare e chimico), favorendo la formazione di tanti nuovi Stati immediatamente dotati di gigantesche risorse economiche e della bomba atomica oppure alimentando il mercato nero delle armi e della tecnologia nucleare. Quando questo era in procinto di accadere, proprio negli anni 90, Washington chiuse entrambi gli occhi davanti agli eccessi di Eltsin, supportandolo in nome dell’unità della Federazione Russa.
In sintesi, o la Russia è forte o la sua debolezza può tradursi in disgregazione e, di conseguenza, in un pericolo per gli equilibri e la sicurezza globale.
In secondo luogo, l’eventuale caduta di Putin non è detto che porti all’ascesa di un leader più morbido, conciliante, filoccidentale e disposto al dialogo. Putin è figlio di una cultura politica a vocazione imperiale che sopravviverà alla sua scomparsa politica. Prima di lui ci sono stati gli Zar e i Segretari Generali del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, dopo di lui altri leader con ambizioni di potenza verranno.
Quello che davvero spaventa l’agente del KGB fattosi Presidente e poi Zar è che la tavola rotonda di cui è arbitro e sovrano gli volti le spalle. Non è uno scenario semplice: oligarchi, direttori dei servizi di intelligence e ufficiali delle Forze Armate devono a lui la loro carriera, il proprio denaro e, in ultima istanza, la loro vita. Tuttavia, la storia insegna che, in politica, i tradimenti più dolorosi arrivano dalla cerchia più intima e che un sistema di potere, certe volte, per salvarsi, deve sacrificare il proprio leader. Capro espiatorio, veicolo per un cambiamento che in realtà non cambia nulla. Il vero incubo di Putin è ritrovarsi, all’improvviso, come Giulio Cesare, accoltellato dalle persone a lui più vicine. Anche lui dirà “Tu quoque, Brute, fili mi!”?. Uno scenario al momento complicato, ma non per questo impossibile.
Di Marco Di Liddo – Analista CeSI
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