In Iran muore la libertà, parla Pegah Moshir Pour
 | Esteri
        
                Pegah Moshir Pour ha portato sul palco di Sanremo il tema dei diritti negati in Iran e ci racconta lo strazio di vivere in un Paese senza libertà
        
        		
				
	
		
	
		
        
	
		
	
		
        
        
    
In Iran muore la libertà, parla Pegah Moshir Pour
Pegah Moshir Pour ha portato sul palco di Sanremo il tema dei diritti negati in Iran e ci racconta lo strazio di vivere in un Paese senza libertà
        
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In Iran muore la libertà, parla Pegah Moshir Pour
Pegah Moshir Pour ha portato sul palco di Sanremo il tema dei diritti negati in Iran e ci racconta lo strazio di vivere in un Paese senza libertà
        
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AUTORE: Fulvio Giuliani
Pegah Moshir Pour ha gli occhi della terra dei suoi avi, profondi come quelli delle ragazze iraniane che ogni giorno mettono in gioco la loro stessa vita per il bene più prezioso: la libertà. Lei, italiana e iraniana, ha portato sul palco del Festival di Sanremo la voce straziata dei ragazzi che non arretreranno di un passo, anche davanti alla più brutale repressione.
«Sono stata fortunata» ci racconta. «I miei genitori nel 1989 (lei sarebbe nata due anni più tardi a Matera e oggi, trentunenne, è ingegnere edile consulente in Ernest&Young, ndr.) ebbero la possibilità di trasferirsi in Italia e darmi un futuro in cui, libera, non fossi costretta ad avere una doppia vita divisa fra pubblico e privato. Sembra incredibile, ma è la stessa libertà di pensiero a essere stroncata in Iran. Sono molto grata per questa opportunità di vita che mi è stata data e che mi obbliga al contempo a essere più responsabile».
Si tratta del concetto cardine del suo attivismo: «Non potevo rimanere in silenzio davanti a una tale brutalità. Quando tornavo in Iran (ora non posso più, ahimè), c’erano ragazzi che mi raccontavano il loro quotidiano intriso di terrore: una persona può essere presa, uccisa, stuprata. Quella persona potevo essere io. Davanti al loro coraggio di affrontare a mani nude il regime, armati della sola parola “libertà”, non potevo starmene zitta. Grazie a Sanremo tutto questo è arrivato alle persone, che si sono avvicinate al mondo iraniano. Un mondo di per sé pieno di storia e cultura, quella persiana. La rivoluzione è anche un rivendicare le nostre origini: noi non siamo arabi, non parliamo arabo, come invece il regime vuole far credere».
Torniamo alla quotidianità in Iran: «I ragazzi – ricorda Pegah – non possono amarsi, non possono fare esperienze, passeggiare mano nella mano per strada, poter scegliere il proprio futuro. Non possono entrare in politica. C’è un’intera sezione dell’orrido carcere di Evin piena di universitari detenuti da anni. Evin è chiamato anche “la bocca dell’inferno”, perché quando vi entri si può non uscirne più. Non ne escono neanche le ossa. Ultimamente si è raccontato di una certa clemenza del regime e del rilascio di qualche attivista, ma è soltanto fumo. Quelli che vi sono rinchiusi sono tantissimi. Non conosciamo le loro condizioni e la situazione è ancora gravissima. Eppure le dittature hanno un ciclo. Hanno un inizio e una fine. Ora ci stiamo avvicinando alla fine della dittatura iraniana».
L’esperienza di Sanremo torna nelle sue parole. Nel corso dell’ultimo Festival gran parte dei temi più ‘alti’ sono stati affidati alle donne: «Mi sono arrivati tantissimi messaggi di supporto e solidarietà da ragazze che mi hanno scritto di essersi ispirate al mio discorso. Certo, parlare ha un costo: è dal primo giorno che ho iniziato a parlare di Iran che ho problemi, in termini sia di accessibilità ai social sia di sicurezza. Ho ricevuto commenti e messaggi ‘strani’ e so bene che in Francia, Germania e Regno Unito alcuni attivisti sono stati seguiti, minacciati. In alcuni casi si è arrivati anche a irruzioni in casa. Anch’io ho questo timore, ma non posso smettere di parlare. Mi affido al buon senso delle persone che mi circondano, mi sento al sicuro e ne sono molto grata».
La pressione sul regime non va allentata, si raccomanda Pegah: «Mi auguro che presto l’Unione europea, a livello di capi di governo, inserisca i Guardiani della rivoluzione fra le organizzazioni terroristiche. Siamo profondamente grati al nostro Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per il duro messaggio consegnato all’ambasciatore iraniano. Noi viviamo nella parte del mondo fortunata e protetta, lo ricordo spesso. Un posto al contempo pericoloso, perché possiamo sempre perdere questi benefici e diritti. Dobbiamo essere vigili sui diritti per il nostro presente e per il nostro futuro».
di Fulvio Giuliani
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