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Una crisi autoprodotta da Erdoğan

Erdoğan abbassa per la quarta volta consecutiva i tassi di interesse della Banca centrale turca. Dietro la maschera di una particolare visione economica, si cela una manovra politica in vista delle elezioni e a scapito della popolazione.
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Una crisi autoprodotta da Erdoğan

Erdoğan abbassa per la quarta volta consecutiva i tassi di interesse della Banca centrale turca. Dietro la maschera di una particolare visione economica, si cela una manovra politica in vista delle elezioni e a scapito della popolazione.
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Una crisi autoprodotta da Erdoğan

Erdoğan abbassa per la quarta volta consecutiva i tassi di interesse della Banca centrale turca. Dietro la maschera di una particolare visione economica, si cela una manovra politica in vista delle elezioni e a scapito della popolazione.
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Erdoğan abbassa per la quarta volta consecutiva i tassi di interesse della Banca centrale turca. Dietro la maschera di una particolare visione economica, si cela una manovra politica in vista delle elezioni e a scapito della popolazione.
La Banca centrale turca ha abbassato di 100 punti base il suo tasso di interesse di riferimento portandolo al 14%, ben al di sotto dell’inflazione che ha superato il 21%. Si è trattato del quarto dei tagli consecutivi imposti dal presidente Erdoğan nel giro di soli quattro mesi, in linea con la sua teoria economica eterodossa che contempla una politica monetaria espansiva poiché egli è da tempo convinto che l’inflazione sia causata da alti tassi di interesse che aumentano il costo del prestito e della produzione. Per questo ha messo sotto il suo controllo la Banca centrale sostituendo dal 2019 ben quattro governatori, tre ministri delle Finanze, diversi sottosegretari e, da ultimo, due viceministri che non si sono voluti piegare alla stravagante teoria del presidente secondo la quale «l’interesse è la causa e l’inflazione è l’effetto». Ciò che spinge il leader turco ad agire rivoluzionando il paradigma della politica economica consolidata – propria delle economie di mercato – e soppiantarla con la sua visione ideologica, l’erdoğanomics, è il fatto che dovrà affrontare le elezioni entro giugno 2023. Per questo diffida degli effetti recessivi degli alti tassi di interesse. Tassi più alti metterebbero in pericolo ciò di cui ha più bisogno, vale a dire un’economia vivace che crea occupazione. In sostanza quella di Erdoğan si può definire come una rischiosa pratica di ‘economia elettorale’: una crisi valutaria autoprodotta. Nel segno della crescente sfiducia dei mercati nella politica economica-monetaria di Ankara, la lira ha registrato giovedì un nuovo minimo storico crollando a 15,75 per un dollaro. Nel solo mese di novembre, la valuta turca ha perso circa il 30% del suo valore rispetto al biglietto verde, l’85% dall’inizio dell’anno. Le continue fluttuazioni dei tassi di cambio fanno temere ai consumatori un ulteriore aumento dei prezzi dei prodotti alimentari di base, come il pane. La coda che si forma al mattino davanti ai forni delle municipalità più popolari della megalopoli sul Bosforo rivela l’estendersi della povertà in Turchia. Ekmek4 (che significa “Pane a 4 lire”) è stato l’hashtag di tendenza su Twitter in questi giorni. È impossibile per i panifici mantenere i prezzi invariati perché prima della crisi 50 chili di farina avevano un costo di 200 lire, ma a causa dei nuovi tassi di cambio il prezzo è salito a oltre 400 lire. Solo nei forni “Halk Ekmek”, quelli popolari, una pagnotta di pane di 250 grammi costa 1,25 lire: per questo pensionati e mamme accorrono per approfittare del prezzo a buon mercato fissato dal Comune. C’è anche chi approfitta della lira che crolla, tra questi i cittadini della vicina Bulgaria che si riversano in Turchia per fare shopping. Un lev bulgaro vale 8 lire turche, a gennaio ne valeva 4,6. Ora il 90% dei clienti dei negozi di Edirne, la città più vicina al confine, è costituita da bulgari che acquistano in particolare generi alimentari. Il presidente Erdoğan ha chiesto alla popolazione di avere pazienza e fiducia nel nuovo modello economico del suo governo e ha invitato i suoi cittadini a convertire in lire i propri risparmi in valuta estera, facendo appello alla «salvezza della nazione». Sotto la pressione del malcontento popolare che incomincia a manifestarsi, ha adesso annunciato l’aumento del 50% del salario minimo, che interessa il 42% della forza lavoro del Paese. A partire da gennaio 2022 questo passerà dalle 2.825 alle 4.250 lire, un aumento che comunque non risolverà il problema dell’estendersi della povertà, perché largamente inferiore alla perdita del potere di acquisto registrata in questo 2021. di Mariano Giustino

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