Jafar Panahi, un simbolo di libertà
Jafar Panahi, un simbolo di libertà
Jafar Panahi, un simbolo di libertà
Continua senza sosta l’ondata di proteste in Iran iniziata lo scorso 17 settembre per la brutale uccisione di Mahsa Amini. Scontri fra manifestanti e forze dell’ordine in varie zone del Paese, con le donne in prima linea per rivendicare diritti e libertà. Il regime, dal canto suo, non smorza la repressione: secondo l’agenzia “Hrana”, dall’inizio delle dimostrazioni sono morti più di 200 manifestanti.
C’è chi da anni racconta la condizione femminile, pagando un prezzo carissimo per la sua denuncia: parliamo di Jafar Panahi. Quando sarà pubblicato il libro definitivo sul cinema dissidente, una manciata di capitoli saranno sicuramente dedicati al maestro di Mianeh. Panahi è stato arrestato nel 2010 e condannato a sei anni di reclusione. L’accusa? Aver tramato contro la Repubblica Islamica e «aver messo in pericolo la popolazione iraniana». Il cineasta è stato perseguitato dal regime per aver dato sostegno al movimento di protesta formatosi dopo la rielezione alla presidenza dell’ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad. Non solo: il volto della new wave iraniana ha pagato a caro prezzo le tematiche dei suoi film, disallineate rispetto alla narrazione del potere. Nonostante il sostegno della comunità internazionale, a Panahi è stato vietato per 20 anni di dirigere film, scrivere sceneggiature e rilasciare qualsiasi tipo di intervista con media iraniani o stranieri. Lo scorso 11 luglio il regista è finito nuovamente in manette per aver invocato la scarcerazione di due colleghi – Mohammad Rasoulof e Mostafa Al-Ahmad – e ancora oggi si trova dietro le sbarre.
Per anni assistente alla regia di Abbas Kiarostami, Panahi ha girato di nascosto cinque lungometraggi. L’ultimo, premiato a Venezia, è “Gli orsi non esistono”, in sala con Academy Two: semplicemente un capolavoro. «È la nostra paura a nutrire il potere», afferma uno dei protagonisti. Ed è qui che esplode la sua visione fortemente anti-regime, mai così forte, potente. Panahi racconta la voglia di fuga di chi vive in Iran ma anche la necessità di restare e combattere, esattamente come chi protesta oggi nelle piazze di Teheran. Dalla censura al carcere, passando per le torture e le proteste contro il potere: temi considerati tabù nella società iraniana vengono affrontati senza filtri, esplorando con estrema audacia il confine tra realtà e finzione. «Sono un cineasta. Il cinema è il mio modo di esprimermi ed è ciò che dà un senso alla mia vita. Niente può impedirmi di fare film. Per questo devo continuare a filmare, a prescindere dalle circostanze: per rispettare quello in cui credo e per sentirmi vivo» ha raccontato Panahi prima di essere arrestato.
La sua filmografia è sempre stata influenzata dalle esperienze personali, un cinema sociale che non ha mai sofferto le immarcescibili intimidazioni. Premiato con il Leone d’Oro per “Il cerchio”, il regista ha acceso i riflettori sulla condizione delle donne iraniane, sulle disuguaglianze sociali ma anche sulle difficoltà degli artisti a Teheran: il cinema come mezzo di denuncia, anche a fronte di un governo autoritario pronto a tutto pur di mettere a tacere i disobbedienti.
di Massimo Balsamo
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