Kamala balla da sola
La convention dei democratici a Chicago ha incoronato Kamala Warris e Tim Waltz ma anche disvelato il ruolo poco incisivo dei Grandi Vecchi
Kamala balla da sola
La convention dei democratici a Chicago ha incoronato Kamala Warris e Tim Waltz ma anche disvelato il ruolo poco incisivo dei Grandi Vecchi
Kamala balla da sola
La convention dei democratici a Chicago ha incoronato Kamala Warris e Tim Waltz ma anche disvelato il ruolo poco incisivo dei Grandi Vecchi
La convention dei democratici a Chicago ha incoronato Kamala Warris e Tim Waltz ma anche disvelato il ruolo poco incisivo dei Grandi Vecchi
Cinque giorni di american dream, di puro sogno a stelle e strisce. Che rischiano di trasformarsi in incubo a poco più di settanta giorni dal voto per le presidenziali. La convention dei democratici a Chicago, se da un lato ha incoronato Kamala Harris e Tim Walz candidati alla Casa Bianca, dall’altra ha (di)svelato il ruolo poco incisivo dei Grandi Vecchi, i padri nobili del partito, da Bill Clinton, ai coniugi Obama, in particolare Michelle fino all’ex speaker della Camera Nancy Pelosi.
In sostanza, Kamala sembra voler fare tutto da sola e procedere nella campagna con un’agenda di temi antitetici ai “consigli” dei Big del partito. I trumpiani la definiscono “opportunista”. Per il suo partito è “iper realista”. Forse troppo. La scelta di Kamala nel suo discorso d’investitura, di puntare tutto su parole come Libertà, Patriottismo Middle Class, appare come il tentativo di inseguire Donald Trump sul suo terreno. Vero è che lo ha attaccato pesantemente sull’aborto ma è vero anche che a The Donald ha dedicato la quasi totalità del suo intervento, cosa che le avevano sconsigliato di fare sia Michele Obama che Nancy Pelosi.
“Anche noi siamo patrioti” ha tuonato Kamala davanti ai 4.500 delegati riuniti a Chicago, forte (soprattutto) dei 500 milioni di dollari raccolti dopo il ritiro di Joe Biden dalla corsa alla Casa Bianca. Se le elezioni fossero domani, sull’onda di un entusiasmo incontenibile fra i democratici e di taluni sondaggi più che confortanti, forse Harris avrebbe più di una chance nella partita contro Trump. La verità è che sono tante le domande senza risposta nel discorso della nomination di Kamala: questione morale con la vicenda giudiziaria del figlio di Biden, Hunter; debito pubblico alle stelle; politiche estremiste. E l’ultima grana: l’abbandono di un pezzo di storia del Partito democratico, quel Robert F, Kennedy junior, candidato indipendente dal cognome “pesante”, che ha annunciato di sostenere Trump.
Altro punto: Kamala vuole sottrarre temi e voti all’avversario, riconducibili a quella Middle Class che ha già premiato Donald nel 2017. È proprio il ceto medio – secondo i guru che affiancano Kamala – il punto chiave della polarizzazione politica. La candidata democratica lo ha capito e ha impostato (paradossalmente) la campagna in chiave repubblicana. Obiettivo: riconquistare l’elettorato bianco rurale che negli ultimi anni si è sentito tradito e ha abbandonato il Partito democratico. Neanche l’intervento appassionato di Michelle Obama nella sua Chicago ha fatto cambiare idea a Kamala. Peggio.
Rispetto ai grandi temi della presidenza Obama – welfare massiccio, sostegno all’immigrazione, assistenza sanitaria per tutti – Harris è sembrata cinicamente pragmatica, sostenendo più la ragione dei numeri che le ragioni del cuore. Non a caso Alec Ross, già collaboratore di Obama per sei anni e poi di Hillary Clinton nella corsa (perdente) alla Casa Bianca, crede nel successo di Harris “a patto che tenga insieme le due anime degli Stati Uniti, la bianca rurale e quella dei nuovi americani in un Paese dove non esistono leader politici che hanno il 60 per cento di sostegno”. Anche per questo la sfida Harris-Trump è da brivido.
di Diego La Matina
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