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Kigali, trent’anni dopo il genocidio in Ruanda

Fantasmi e speranza in Ruanda nell’anniversario del genocidio che insanguinò il Ruanda per quattro lunghi mesi, dilaniata dagli hutu

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Kigali, trent’anni dopo il genocidio in Ruanda

Fantasmi e speranza in Ruanda nell’anniversario del genocidio che insanguinò il Ruanda per quattro lunghi mesi, dilaniata dagli hutu

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Kigali, trent’anni dopo il genocidio in Ruanda

Fantasmi e speranza in Ruanda nell’anniversario del genocidio che insanguinò il Ruanda per quattro lunghi mesi, dilaniata dagli hutu

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Fantasmi e speranza in Ruanda nell’anniversario del genocidio che insanguinò il Ruanda per quattro lunghi mesi, dilaniata dagli hutu

“Accadde in aprile” recita il titolo di un film del 2005 diretto da Raoul Peck che portò sul grande schermo la storia di uno dei più grandi massacri della storia dell’umanità. L’aprile giunto quest’anno in Ruanda non è come gli altri: segna il trentesimo anniversario del genocidio che insanguinò per circa quattro mesi il piccolo Paese dell’Africa orientale. Cento giorni di follia, in cui la popolazione di etnia tutsi e batwa fu massacrata dai connazionali hutu.

L’incedere del tempo ha lasciato cicatrici profonde sui corpi e sulle menti dei sopravvissuti, memoria storica indispensabile in una terra che non può permettersi di dimenticare: «Siamo andati dal borgomastro dopo essere scappati e ci rispose che per gli hutu ucciderci era semplice lavoro, che dovevamo tornare a casa e lasciarci massacrare con dignità» raccontò un superstite nel libro “Le ferite del silenzio”, curato dalla scrittrice Yolande Mukagasana, anch’essa scampata agli eccidi. Convivere con il ricordo è doloroso e la riconciliazione è complicata, con le ostilità nella Repubblica Democratica del Congo – più precisamente nella provincia del Kivu settentrionale, dove operano ribelli tutsi – che alimentano campagne d’odio e negazionismo nelle realtà confinanti.

Le vicissitudini storiche provano che il genocidio non fu una parentesi, ma il punto d’arrivo di decenni di conflitto etnico e di reciproci bagni di sangue. Gli studiosi si dividono ancora sulle responsabilità occidentali (soprattutto belghe) nella divisione fra i due gruppi, accentuatasi durante l’epoca coloniale: “Tutsi, razza divina” titolava con scherno la rivista hutu “Kangura”, usando la preferenza mostrata dai colonizzatori europei per i nemici (più alti e dai lineamenti fini) in modo da giustificarne la discriminazione. Il periodico pubblicò nel 1990 – agli albori delle prime offensive del Fronte patriottico ruandese di Paul Kagame, oggi al potere – ‘dieci comandamenti’ per il suo popolo, un documento sinistramente simile alle leggi di Norimberga in cui si sanciva l’espulsione dei tutsi dalla società e il divieto di contrarre matrimoni misti.

A scatenare lo sterminio fu l’abbattimento dell’aereo che trasportava il leader ruandese Habyarimana e l’omologo del Burundi Ntaryamira, entrambi hutu. Tutt’ora aleggia il sospetto che l’attacco sia stato condotto dalle stesse milizie fedeli al presidente, disposte a sacrificarlo pur di ottenere il pretesto perfetto per inaugurare le stragi, già preparate nei minimi dettagli. La connivenza di alcune leadership europee con la dittatura – Mitterand in particolare veniva definito dagli organi pro genocidio come un «vero amico» – e il comportamento di un mondo disinteressato e incapace di fermare l’ecatombe rappresentano ancora oggi una macchia sulla reputazione (oltre che sulla coscienza) delle Nazioni Unite.

Lo spirito di quanti invece fecero il possibile per fermare la tragedia, compresi gli hutu moderati, vive nelle nuove generazioni di ruandesi, cresciute in un Paese profondamente diverso. Vinta la guerra nel luglio del 1994, Kagame cominciò la ricostruzione e lo fece alle sue condizioni: Kigali figura fra le più ricche e avanzate metropoli africane ma è pur sempre la Capitale di una nazione retta con metodi autoritari, in cui non c’è spazio per il dissenso e che vede la povertà resistere nelle campagne. Distinguere fra hutu e tutsi divenne illegale e i più giovani sono ormai abituati a considerarle etichette obsolete. C’è tanta strada da fare, ma è già tantissimo.

di Federico Mari

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