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Vertice Ue Parigi

La fotografia dell’incontro Ue a Parigi

Quelle che la debolezza culturale considera debolezze europee sono, in realtà, le resistenze dei nazionalismi rattrappiti

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La fotografia dell’incontro Ue a Parigi

Quelle che la debolezza culturale considera debolezze europee sono, in realtà, le resistenze dei nazionalismi rattrappiti

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La fotografia dell’incontro Ue a Parigi

Quelle che la debolezza culturale considera debolezze europee sono, in realtà, le resistenze dei nazionalismi rattrappiti

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Quelle che la debolezza culturale considera debolezze europee sono, in realtà, le resistenze dei nazionalismi rattrappiti

Almeno si guardi la fotografia. E quelle di appena ieri. Grande parte della debolezza europea discende dalla debolezza cognitiva di chi racconta insuccessi dove ci sono successi e debolezze dove ci sono forze, salvo poi provare a proteggere le debolezze e conservarle tali. Il senso è quello di cercarsi una colpa, per poi sguazzarci. E quando parla Mario Draghi, che della potenza europea è consapevole e delle debolezze ben avvertito, gli stessi per cui noi avremmo tutte le colpe e nostri sarebbero tutti i fallimenti corrono a dire che anche lui non fa che fustigare «l’Europa» (si chiama Unione europea). Ottusi dal luogo comune, al punto da non comprendere che sta dicendo l’opposto di quel che la versione vittimista e perdente va sostenendo.

Si guardi la fotografia dell’incontro parigino. Ci vuole grossolanità per parlare di un vertice Ue, onde poi constatare che sarebbe stato meglio farlo con 27 partecipanti (quanti sono i Paesi membri). Guardate la fotografia, guardate la faccia di Starmer, primo ministro del Regno Unito. Dovrebbe bastare per capire che non era un vertice Ue. Ma c’è di più: dovrebbe bastare per valutarne il successo. Primo, perché se si parla di sicurezza e difesa europee contano anche gli arsenali nucleari, che nel Continente sono due: francese e inglese. Secondo, perché non è facile per lui ritrovarsi nella compagnia da cui il suo Paese decise di allontanarsi, quindi la cosa ha un grande significato. Terzo, perché tutti hanno ribadito tre cose: a. rimaniamo al fianco dell’Ucraina; b. non si tratta la pace senza l’Ucraina; c. dobbiamo esprimerci con una sola voce e posizione.

Poi guardate i commenti, dissennati: divisi sull’invio delle truppe. Ma dove? A fare che? Se oggi mandi soldati è per prendere parte alla guerra, ipotesi scartata da tre anni. Se li mandi per sorvegliare la pace devi prima avere la pace, che a Parigi non c’era e non è alle viste. Ma qualsiasi cosa va bene pur di parlare di fallimenti e divisioni.

Ieri il professor Ricolfi lamentava su queste pagine l’assenza di serie iniziative europee nell’evitare la guerra. Si guardi la fotografia: Macron, presidente di turno dell’Ue, due volte al Cremlino, due volte umiliato al tavolone, due volte rimbalzato. Che si sarebbe dovuto fare, convertirsi a Kirill? Ci ricordiamo di quando la tesi era: non si umili Putin? Ci si ricorda di tutti i limiti posti all’uso delle nostre armi? Temo che si sia fatto troppo, per provare a credere che la guerra si sarebbe potuta fermare e Putin avrebbe potuto ragionare in una logica di convivenza. (In quanto alla tesi che sia stato l’allargamento Nato verso i confini russi a scatenare la furia imperialista, si guardino la cartina geografica e le date: Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria entrano nel 1999 e nel 2002 Putin è a Pratica di Mare a sancire amicizia e collaborazione; nel 2004 entrano Paesi dell’Ue, quindi del nostro mercato interno, che si spera sia legittimo e non provocatorio difendere, più Slovacchia e Slovenia che non confinano, come non confinano e non sono nei pressi Albania, Croazia, Montenegro e Macedonia del Nord; o si doveva dare una mano a Putin nel rifare l’Urss?)

L’incontro di Parigi ripropone il tema dell’Unità a geometria variabile, come si è già realizzata, con grande successo, nell’Unione monetaria europea. Alla Bce, che ne è la principale istituzione e dove già si vota a maggioranza, c’era Draghi. Il quale oggi ha ripetuto (per l’ennesima volta) che abbiamo bisogno di aziende ed economia a dimensione Ue e che per averle occorre «standardizzare e armonizzare» – quindi fare regole adeguate, non smantellarle – per comportarci «come fossimo un solo Stato». Ha aggiunto che si deve «semplificare le normative nazionali». Nazionali.

Quelle che la debolezza culturale considera debolezze europee sono, in realtà, le resistenze dei nazionalismi rattrappiti. L’alibi per tutti è il racconto delle nostre colpe e delle mancanze europee che sono invece nazionali, nella speranza di tenersele strette.

di Davide Giacalone

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