La Memoria di un uomo e di tutti
Oggi 27 gennaio, Giorno della Memoria, raccontiamo la storia di Yigal Carmon, giornalista del nostro quotidiano tra passato, presente e futuro
| Esteri
La Memoria di un uomo e di tutti
Oggi 27 gennaio, Giorno della Memoria, raccontiamo la storia di Yigal Carmon, giornalista del nostro quotidiano tra passato, presente e futuro
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Oggi 27 gennaio, Giorno della Memoria, raccontiamo la storia di Yigal Carmon, giornalista del nostro quotidiano tra passato, presente e futuro
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Oggi 27 gennaio, Giorno della Memoria, raccontiamo la storia di Yigal Carmon, giornalista del nostro quotidiano tra passato, presente e futuro
Yigal Carmon è un uomo che ha conosciuto il potere da vicino, lo ha visto maneggiare e ha cercato di sostenere, consigliare, indirizzare le donne e gli uomini chiamati a prendere decisioni cariche di conseguenze per un intero Paese.
Carmon ha più volte illustrato anche su queste pagine le ragioni profonde della guerra scatenata da Hamas il 7 ottobre 2023 contro Israele, cercando sempre di guardare oltre l’evidenza, sotto la superficie più ovvia. Anche se sconvolgente e raccapricciante. Un uomo di azione e di pensiero, figlio come tanti di una terra divenuta miraggio e poi rifugio.
In occasione del giorno della memoria, oggi 27 gennaio, raccontiamo la sua storia. Una di quelle vicende familiari che si intrecciano indissolubilmente nel passato, nel presente e nel futuro con il più grave crimine che l’umanità abbia conosciuto: la Shoah. Perché il bambino Yigal, che crebbe in una tendopoli all’indomani di quell’immane tragedia, arrivò sulle sponde del Mediterraneo da profugo e perseguitato insieme a ciò che restava della sua famiglia. In buona misura sterminata dalla furia nazista. Un omicidio di massa che dobbiamo sempre avere la capacità di analizzare nella sua lucida e spaventosa pianificazione e realizzazione – senza dimenticare che se conosciamo nel dettaglio quanto accaduto lo dobbiamo in buona misura alla meticolosità dei carnefici, una lezione per l’eternità – coltivando anche il ricordo di ogni singola storia.
Ogni singolo dolore e incubo che si tramanda di generazione in generazione. «La mia famiglia proviene dall’Europa dell’Est» racconta Yigal Carmon. «Mio nonno Leonid Pasternak (uno dei cugini del padre dello scrittore Boris Pasternak, autore del romanzo “Il dottor Živago”) era nato a Odessa verso la fine del XIX secolo. In quel periodo era una città cosmopolita e multietnica dell’impero zarista nella quale vivevano russi, ucraini, francesi, turchi, greci, italiani, polacchi, tartari e una numerosa popolazione ebraica. Nel libro in russo “I cinque”, Ze’ev Jabotinsky, leader del sionismo revisionista, ha infatti raccontato la vivacità culturale di Odessa, dove si formò l’illuminismo dell’intellighentsia ebraica». Impossibile non fermarsi a questo punto del racconto e pensare agli intrecci indissolubili della storia, all’Odessa ridotta in macerie dalla furia di Vladimir Putin in un altro secolo che non è riuscito a liberarsi dei suoi demoni.
Torniamo a Yigal Carmon: «All’inizio del Novecento una serie di pogrom obbligò mio nonno a lasciare la sua città e spostarsi a Gyergyószentmiklós (Gheorgheni) in Transilvania, allora sotto l’impero austro-ungarico e che dopo la fine della Prima guerra mondiale passò alla Romania. Lì si sposò con mia nonna Dora ed ebbero tre figli: mia madre Regina (conosciuta con il suo nome ebraico Rachel), mia zia Roza (chiamata affettuosamente Rozycka) e mio zio Sigismund (chiamato da tutti Žiga). Quest’ultimo, che non ho mai avuto la fortuna di conoscere, era un giovane idealista e all’epoca questo significava essere comunisti. Si trasferì a Budapest verso la fine degli anni Trenta per studiare legge. Lì si innamorò di Clara, sua compagna di università. Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale Žiga non ebbe dubbi su che cosa dovesse fare e decise di arruolarsi nell’Armata Rossa per combattere la Germania nazista. Morì nella zona di Kharkov in una battaglia contro i panzer della sesta armata del generale della Wehrmacht Friedrich Paulus (che promosso feldmaresciallo si arrenderà ai russi a Stalingrado, rifiutando il tacito ordine di Hitler di suicidarsi). Il suo corpo non fu più ritrovato e anche di Clara, che lo seguì in Russia, non si seppe più niente. Durante la Seconda guerra mondiale, la Romania si alleò con la Germania e la mia famiglia si ritrovò nel ghetto di Reghin».
E qui il racconto abbandona il grande scenario e diventa tragica memoria personale, familiare: «Mio nonno e mia nonna vennero fucilati davanti agli occhi di mia zia Rozycka, che venne poi deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Era una bellissima donna e fu letteralmente ‘utilizzata’ per essere ripetutamente stuprata dai nazisti. Solo per questo motivo non fu uccisa e poi incenerita in un forno crematorio. Soffrì l’impensabile e quando venne liberata dal campo di Auschwitz non riuscì a ricostruirsi una vita, cadendo in una forte depressione. Mia mamma si occupò di lei, fino al giorno in cui si lasciò morire».
Ci fermiamo un attimo, pensando ai tanti che sono rimasti in vita ma senza sopravvivere, a chi si è trascinato per anni, a chi ha cercato una missione e alla fine non ce l’ha fatta comunque. Come Primo Levi. «Mia madre – riprende Carmon – si salvò invece dai nazisti nascondendosi a Bucarest, dove incontrò mio padre Benyamin che proveniva da Chernowitz, nella regione della Bukovina oggi in Ucraina. Mio papà venne preso e portato in un campo di lavoro forzato in Transnistria, da dove uscì alla fine della guerra soffrendo di tubercolosi. Dall’unione dei miei genitori siamo nati io (che porto oltre a Yigal anche il nome di mio zio Žiga) e i miei due fratelli maggiori, Itzhak (detto Tzuku) e Matityahu (detto Mati).
Negli anni Cinquanta, molto prima dell’ascesa al potere di Nicolae Ceaușescu, assieme a tutta la mia famiglia ci siamo trasferiti in Israele, dove per tre anni abbiamo vissuto in una tenda. Eravamo nel campo profughi di Shaare Aliyah, non avevamo cibo ed eravamo malnutriti. Dopo questo periodo ci trasferimmo in una casa a Givat Olga, fra Tel Aviv e Haifa, sul mare. Lì mia zia Rozycka provò varie volte ad annegarsi fra le onde, se solo ogni volta io e miei fratelli non l’avessimo salvata a nuoto. Il dolore di mia zia era palpabile, non voleva più vivere. I nazisti le avevano tolto ogni desiderio di andare avanti nella vita: era stata violentata, picchiata, trattata come se non fosse un essere umano. A volte la sentivo gridare chiusa in una stanza.
Siamo cresciuti vivendo a casa la tragedia della Shoah attraverso il dolore di mia zia, mia madre e mio padre, i cui genitori furono uccisi ma di cui non mi ha mai raccontato niente. È forse per questo motivo che io e i miei due fratelli siamo andati a ricoprire posizioni importanti nell’esercito con l’idea di proteggere il Paese, affinché il passato non si ripetesse. A tutto questo dolore anni dopo si aggiunse anche quello per la morte di mio fratello maggiore Tzuku, pilota appena ventenne nell’esercito, che morì in un incidente aereo mentre la sua fidanzata era di servizio nella torre di controllo».
Accennavamo a chi non ce l’ha fatta, avendone ogni ragione umanamente comprensibile: «Nonostante i dolori, mia madre era una persona ottimista che è riuscita a ricominciare da zero dopo aver perso i suoi affetti più cari, perché credeva nei suoi figli. Sono convinto che la sua forza d’animo, la sua fiducia in me e il suo incoraggiamento mi abbiano aiutato a superare i traumi e a continuare nonostante tutto ad avere fiducia nel futuro». Poi un passaggio cruciale, se si vuole provare a comprendere la psicologia di Israele: «Mia madre mi ha insegnato a non sentirmi vittima e a combattere per gli ideali della libertà. Non a caso, il suo poeta preferito era il rivoluzionario ungherese Sándor Petőfi che scriveva: “Dobbiamo essere schiavi o liberi? Questa è la domanda, scegli la risposta… Giuriamo che non saremo mai più schiavi…”».
Scrivevamo di incubi che sembrano parte del destino di Israele e la memoria corre al 7 ottobre: «La popolazione israeliana si è ritrovata in una guerra che non avrebbe voluto combattere. La carta di Hamas sottolinea la volontà di volere uccidere gli ebrei non solo in Israele ma ovunque nel mondo. Lentamente, la stessa popolazione palestinese sta iniziando a ribellarsi contro Hamas. Spero che in futuro Israele e la parte dei palestinesi che rifiuta l’ideologia di Hamas possano iniziare un percorso di pace che conduca a due Stati per due popoli».
di Fulvio Giuliani
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