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Tragedia umanitaria Rafah

La tragedia (anche politica) di Rafah

Centinaia di migliaia di persone sospinte verso il Sud della Striscia di Gaza, dall’offensiva militare israeliana. Rafah, luogo simbolo di questa tragedia umanitaria
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La tragedia (anche politica) di Rafah

Centinaia di migliaia di persone sospinte verso il Sud della Striscia di Gaza, dall’offensiva militare israeliana. Rafah, luogo simbolo di questa tragedia umanitaria
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La tragedia (anche politica) di Rafah

Centinaia di migliaia di persone sospinte verso il Sud della Striscia di Gaza, dall’offensiva militare israeliana. Rafah, luogo simbolo di questa tragedia umanitaria
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Centinaia di migliaia di persone sospinte verso il Sud della Striscia di Gaza, dall’offensiva militare israeliana. Rafah, luogo simbolo di questa tragedia umanitaria
L’imbuto ostruito da ogni parte in cui sono finite centinaia di migliaia di persone, sospinte verso il Sud della Striscia di Gaza (che un imbuto lo è già di suo) dall’offensiva militare israeliana, è la materializzazione di un incubo. Dietro la guerra, davanti il muro tirato su dagli egiziani per impedire un afflusso continuo dai territori in mano ad Hamas verso il Sinai di potenziali agitatori, profughi o anche semplici ‘migranti economici’. Terra di muri, il Medio Oriente: siamo abituati a pensare a quello voluto dall’allora premier israeliano Sharon per sigillare la Cisgiordania ai tempi degli attentati dinamitardi a Tel Aviv, ma la barriera issata dall’Egitto del generale al-Sisi non è da meno e oggi suona come una condanna per civili ridotti a topi. In troppi hanno giocato sulla loro pelle, lucrando, facendosi gli affari propri, permettendo che si sporcasse il nome dell’Onu, sotto la cui sede a Gaza pare Hamas abbia costruito tunnel per una profondità di 18 metri. Il luogo simbolo di questa tragedia umanitaria (e politica, ci arriviamo) è Rafah. Luogo infernale, sotto la minaccia di un’operazione militare ‘definitiva’, per usare la propaganda del premier Benjamin Netanyahu. Eccoci a uno dei primi imbuti politici: ci siamo stancati di ripetere quanto la guerra stessa sia garanzia di sopravvivenza per un primo ministro che, sino a quando avrà i propri uomini nel tritacarne della Striscia, potrà rinviare la resa dei conti per le sue responsabilità nel fallimento della difesa e dell’intelligence lo scorso 7 ottobre. Finché c’è guerra c’è speranza, per lui. Pur con un’operazione di terra mai vista prima e un livello di vittime e distruzione difficile da quantificare, Netanyahu non potrà mai uccidere fino all’ultimo dei ‘soldati’ di Hamas. In compenso ha assicurato al suo Paese l’odio imperituro di un paio di generazioni di palestinesi. Terreno perfetto per coltivare la futura carne di cannone di Hamas o qualsiasi altra organizzazione dovesse arrivare dopo. Eliminare i capi è una strategia efficace, l’attuale mattanza non estirperà il terrorismo in quanto tale. Paradossalmente, ne garantirà la sopravvivenza. Nell’immobilismo e irrilevanza assoluti di tutti gli altri protagonisti, non si capisce bene cosa si imputi a Joe Biden: con Netanyahu è arrivato a un livello di ammonimenti mai visto nella storia dei rapporti fra Usa e Israele ed è intervenuto in forze contro i terroristi Houthi nello Yemen, ma forse qualcuno vorrebbe che bombardasse direttamente Teheran. Abbiamo scritto più volte della crisi della democrazia Usa, incapace di produrre qualcosa di meglio del confronto Biden-Trump, ma a oggi oltre il vecchio leone democratico c’è un possibile presidente rancoroso e vendicativo pronto – lo ha detto lui stesso – a fare accordi con i peggiori fra i nemici dell’Occidente sulla pelle di noi europei. Eppure da queste parti tanti fanno i pesci nel barile, con una miopia strategica che fa spavento Di Fulvio Giuliani

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