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L’America spaccata nel giorno del destino

L’America che in queste ore si precipita a votare per Donald Trump crede fermamente che il miliardario newyorkese sia l’unica risposta alla decadenza del Paese

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L’America spaccata nel giorno del destino

L’America che in queste ore si precipita a votare per Donald Trump crede fermamente che il miliardario newyorkese sia l’unica risposta alla decadenza del Paese

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L’America spaccata nel giorno del destino

L’America che in queste ore si precipita a votare per Donald Trump crede fermamente che il miliardario newyorkese sia l’unica risposta alla decadenza del Paese

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L’America che in queste ore si precipita a votare per Donald Trump crede fermamente che il miliardario newyorkese sia l’unica risposta alla decadenza del Paese

Gli Stati Uniti non sono spaccati da ieri e non saranno più spaccati domani di quanto non lo siano oggi. Resta, però, una realtà mai vista e non stiamo parlando di numeri.

Per sua stessa natura il sistema elettorale può generare situazioni complesse o persino paradossali, ma ormai la spaccatura va ben oltre le percentuali e gli Swing State: è diventata una questione antropologica. L’America che in queste ore si precipita a votare per Donald Trump crede fermamente che il miliardario newyorkese sia l’unica risposta alla decadenza del Paese. L’uomo del destino, chiamato a riportare gli Usa dove loro compete: in cima al potere politico e militare mondiale.

Questo è un clamoroso successo di Trump, dopo quasi 10 anni di propaganda martellante su pochi concetti per la massima parte falsi ma perfetti per il gigantesco zoccolo duro del suo elettorato. Un vestito in cui calarsi e far finta che il mondo esterno non esista. La Cina, la Russia, figurarsi l’Europa e il Giappone, non parliamo neppure di messicani o sudamericani sono nemici da ridurre al silenzio brandendo l’arma economica o fastidiosi postulanti.
Un mondo semplice, persino elementare, in cui di qua ci sono i buoni – gli americani che seguono Trump – e di là i cattivi, i traditori, i comunisti, i debosciati.

Questa è l’America che con una frase di rara insipienza politica ma assoluta sincerità il presidente uscente Joe Biden ha definito pochi giorni fa “spazzatura”. Non una battuta venuta male, come non sono solo battute le frasi inascoltabili di Trump. È ciò che Joe Biden pensa di quelle decine di milioni di suoi concittadini che vedono in The Donald il faro. È antropologia pura.

I democratici che corrono a votare Harris lo fanno nella stragrande maggioranza dei casi con un entusiasmo che non è neppure un decimo di quello dei loro avversari nei confronti di Trump. La vicepresidente è stata buttata in corsa per disperazione, è una politica pallida, di cui è arduo avere un’idea sia pur vaga del suo progetto. Si sa che della radicale di quattro anni fa non è rimasto nulla e che per esigenze tattiche si è messa a parlare di pistole, migranti e roba del genere.

Comunque sia, chi corre per lei, chi si è speso sul palco per lei lo fa animato da puro orrore per quell’altra America. Dal terrore che le due coste nelle sue mani con percentuali bulgare finiscano divise da un mare di Stati trumpiani, spinte sulle spiagge dell’est e dell’ovest manco fossero gli inglesi a Dunkerque.

La voce di chi confida nel sistema di check and balance dei poteri della Repubblica statunitense si fa più flebile, perché l’Opa ostile lanciata con successo da Trump sui repubblicani e l’inefficienza democratica – un partito perennemente sospeso fra radicalismi che farebbero impressione anche in Europa e l’ala governativa dei Clinton e degli Obama – stanno consegnando la più grande democrazia del mondo (non ce ne voglia l’India ma questa è ancora tutta un’altra storia) a un confronto fra tribù.

Di Fulvio Giuliani

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