L’università non si pieghi all’odio
Lawrence Summers, Charles W. Eliot University professor e 27esimo presidente di Harvard, scrive una lettera aperta alla sua stessa università
L’università non si pieghi all’odio
Lawrence Summers, Charles W. Eliot University professor e 27esimo presidente di Harvard, scrive una lettera aperta alla sua stessa università
L’università non si pieghi all’odio
Lawrence Summers, Charles W. Eliot University professor e 27esimo presidente di Harvard, scrive una lettera aperta alla sua stessa università
Lawrence Summers, Charles W. Eliot University professor e 27esimo presidente di Harvard, scrive una lettera aperta alla sua stessa università
Lawrence Summers, Charles W. Eliot University professor e 27esimo presidente di Harvard, scrive una lettera aperta alla sua stessa università. Comincia così: «L’ultimo anno accademico è stato il momento più difficile nell’ultimo mezzo secolo». Arriva l’estate, finisce quello che per alcuni è stato un periodo di totale deperimento dei valori accademici. Una sorta di auto sabotaggio: gli stessi studenti hanno attaccato la propria casa. Per questo l’invito che Summers ha deciso di pubblicare sul giornale universitario (“The Harvard Crimson”) ha un valore incredibilmente alto. Perché è rivolto prima di tutto agli studenti. «Le istituzioni contribuiscono di più quando fanno cose che gli altri non possono fare. Per Harvard e altre grandi università, questo significa stare lontano dalle distrazioni quotidiane o dalla difesa politica: quelli della Facoltà di Lettere e Scienze danneggiano la nostra università solo quando minano i nostri processi disciplinari per il bene di una causa politica. Invece, dobbiamo concentrarci su ciò che è reso possibile da intelletti notevoli: la magia dell’interazione tra insegnante e studente e l’indipendenza della torre d’avorio».
Nelle università c’è sempre un accenno di futuro. Nel 2009 a Bologna Umberto Eco ne parlava così: «Di qualsiasi cosa i mass media si stanno occupando oggi, l’università se ne è occupata venti anni fa e quello di cui si occupa oggi l’università sarà riportato dai mass media tra vent’anni. Frequentare bene l’università vuol dire avere vent’anni di vantaggio». È questo futuro, questo vantaggio (che è sempre un vantaggio democratico), a essere sotto attacco.
Summers registra una forma di spaesamento tra gli studenti: «I disaccordi non derivavano dal modo migliore in cui l’università poteva insegnare agli studenti o far progredire la conoscenza. […] Erano piuttosto su questioni in gran parte separate dalle principali missioni dell’università». Non che questi temi debbano essere proibiti. Ma gli alunni di una delle Facoltà più importanti del mondo non dovrebbero immaginare qualcosa di meglio dell’odio che scaccia l’odio per poter far sentire la propria voce? La protesta, lontana dall’essere una risposta all’omologazione di massa, finisce per diventare una pretesa di prevaricazione. I docenti si dimettono o si vedono cancellare conferenze e seminari. E questo perché si crede sempre di più che l’agorà debba essere gestita da chi urla più forte. Eppure lo spazio pubblico, la comunità, funziona solo quando è il prodotto dell’incontro di intelligenze che porta all’emergere spontaneo di valori condivisi.
La critica di Summers «deriva dalla convinzione che la nostra capacità di creare e trasmettere conoscenza sia profondamente importante ma minacciata quando gli attivisti politici sono in grado di impostare la nostra agenda». C’è chi ha derubricato questi timori a miti da conservatori. A una falsa percezione della realtà. Eppure settanta docenti, coordinati dal linguista Steven Pinker, l’anno scorso hanno fondato il Council on Academic Freedom at Harvard. Tra loro c’era anche Summers, che in occasione dell’annuncio dell’iniziativa ricordò come nessuna idea debba essere proibita. Questa lettera aggiunge un elemento: «Mentre è responsabilità dei leader accademici difendere la libertà accademica, è anche loro obbligo morale sostenere coloro che sono soggetti a discorsi di odio». In quest’ultimo anno la tensione tra libertà e sicurezza ha portato a una rottura. E nonostante gli slogan e le tende per la pace, il fumo che si alza dalle università sembra l’ennesimo segnale di guerra.
di Riccardo Canaletti
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